Nel primo episodio della serie ispirata al libro di Nick Hornby “Alta Fedeltà”, c’è una sequenza in cui la protagonista, interpretata da Zoe Kravitz, è impegnata a passare dei dischi in un locale di New York. Viene avvicinata da un musicofilo nerd, che successivamente diventerà uno dei commessi del negozio di dischi che la ragazza gestisce. Il tipo si avvicina incredulo e chiede, commentando la canzone che sta passando in quel momento: “Sono i Radio Stars!? Io adoro i Radio Stars!”.
Uno stupore assolutamente giustificato, visto che dei Radio Stars si ricordano davvero in pochi. Del disco da cui era tratta la canzone poi, intitolato “Holiday Album”, davvero nessuno o quasi, visto che all’epoca fu un fallimento e di fatto decretò la fine della band. Che aveva invece nobili natali e vantava una storia piuttosto interessante, considerato che, se magari è esagerato dire che la band rappresenta l’anello mancante tra il glam e il punk, di sicuro mostra come le due scene fossero limitrofe e si nutrissero di alcuni elementi comuni: il terreno di coltura dei politecnici e dalle scuole d’arte inglesi e la voglia di commercializzare questa arte.
Ma andiamo con ordine e tocca partire da due stelle assolute del glam: quella di Marc Bolan e quella degli Sparks.
Prima di darsi al folk tolkieniano dei Tirannosaurus Rex, che si sarebbe poi evoluto nel glam rock dei T-Rex, il giovanissimo Marc cominciava la propria carriera prestando la propria chitarra e le prime composizioni ai John’s Children, gruppo freakbeat che, come molti gruppi mod che scoprivano una soffusa e sognante psichedelia, dal vivo si ricordavano dell’amore per la musica black più ruvida, inscenando dei veri e propri terremoti. Per fare capire di cosa stiamo parlando, basta dire che nel 1967 il gruppo andò in tour nientemeno che con gli Who che dal vivo non erano certi degli agnellini, riuscendo a mettere in difficoltà persino il gruppo di Pete Townshend che, dovendo salire sul palco dopo di loro, si ritrovavano una sala letteralmente devastata e spesso un pubblico già impegnato in risse da saloon. A non sottrarsi alle botte e ai pugni era soprattutto Andy Allison, cantante della formazione, viso d’angelo, voce fanciullesca, ma vero demonio sul palco, talmente inaffidabile (così come i compagni) che Bolan ci metterà poco a capire che con i John’s Children non c’era futuro e che non era il caso di sprecare altre cartucce con loro dopo il mancato successo della sua “Desdemona”:
Andy resta nel giro della musica e nel 1974 si ritrova nel supergruppo glam dei Jet, formato assieme al bassista Martin Gordon. E qui entrano in scena gli Sparks.
I due fratelli della upper class californiana Ron e Russel Mael erano stati portati in Inghilterra dopo l’insuccesso del loro disco “Halfnelson”. Un po’ come Chas Chandler, ex-bassista degli Animals, che aggancia in America Jimi Hendrix, lo porta a Londra e gli affianca due musicisti britannici, anche qui è un ex-bassista a vederci lungo: si tratta di John Hewlett, bassista degli ormai disciolti John’s Children. E’ Hewlett che mette assieme la band che registrerà il capolavoro degli Sparks “Kimono My House”. Il disco, oltre che del genio smisurato dei fratelli Mael, si nutriva di quello al basso di Martin Gordon le cui linee ritmiche esaltavano la dinamicità della composizioni barocche di Ron Mael. Un genio che finì presto per entrare in scontro con i fratellini americani, che per tutta risposta lo buttarono fuori dalla band (troppe ambizioni d’autore combinata a un’eccessiva presenza scenica).
E’ a quel punto che Gordon decide di mettere assieme i Jet, unendo le forze con due ex John’s Children ovvero – rieccolo! – il cantante Andy Allison e il batterista Chris Townson. A completare il supergruppo giungono le tastiere di Peter Oxendale (che completava la formazione degli Sparks durante i concerti) e soprattutto la chitarra di David O’List, altro maestro delle occasioni perse! Alcuni esempi? Contattato contemporaneamente da John Mayall e Keith Emerson sceglie quest’ultimo e si unisce ai Nice (e sappiamo bene quale sorte attendeva invece i chitarristi che uscivano fuori dalla fucina dei Bluesbreakers…). Suona in alcune date dal vivo con i Pink Floyd come sostituto di un Syd Barrett sempre più assente, ma non riesce a entrare nella band, che accoglierà da lì a poco David Gilmour. Infine riesce a durare solo poche settimane prima con i Jethro Tull, in cui doveva sostituire Mick Abrahams, e poi con i Roxy Music, che gli preferiranno Phil Manzanera.
I Jet riescono a incidere un solo disco omonimo nel 1975, che – nonostante risulti ancora oggi un piacevole ascolto e non solo per gli appassionati del genere – viene ignorato quando non vilipeso come copia carbone e spudorata degli Sparks.
Ma Gordon non demorde e, annusata l’aria, smette i panni del glam rocker e indossa quelli del punk: nascono finalmente i Radio Stars. Gordon chiama a sé Andy Allison che per l’occasione compie l’ennesima metamorfosi: se con i John’s Children la sua voce era a metà tra il fanciullo innocente e il working class hero più arrabbiato (lui che veniva dal college…) e con i Jet sfoggiava un accento affettato e fortemente britannico (che imitava in maniera anche troppo sfacciata il canto di Russell Mael), con i Radio Stars si improvvisa ragazzaccio di strada. Ascoltare per credere il debutto della band “Songs for Swinging Lovers”, prodotto dallo stesso Gordon (con la collaborazione di Allison) ed edito dalla Chiswick, etichetta che al tempo aveva sotto contratto band come Motorhead, 101’ers del futuro Clash Joe Strummer e Damned. A completare la formazione entrano Ian Macleod alla chitarra e Steve Perry alla batteria. L’anno è il 1977 e francamente nell’anno del boom del punk non sorprende che del disco dei Radio Stars oggi non si ricordino in molti: si tratta di un lavoro adagiato su una formula all’epoca alla moda, che altri stavano esprimendo molto meglio (su tutti i Buzzcocks). Eppure è con questo disco che il duo Gordon/Allison strappa il primo e unico successo della propria carriera con il singolo “Nervous Wreck” .
Per i completisti di Marc Bolan segnalo che il lato B presentava una “Horrible Breath” scritta da Marc ai tempi dei John’s Children. D’altronde Bolan non si era dimenticato dall’amico Andy Allison al punto da invitarlo anche alla quinta puntata del suo show televisivo “Marc”:
Si tratta però di un fuoco di paglia: c’è giusto il tempo di un ultimo disco “Holiday Album” e poi la coppia Gordon/Allison scoppia con il secondo che caccia il primo da una band però oramai finita e con cui non concluderà nulla.
Ma, attenzione! È proprio il canto del cigno a fungere da ottimo commiato: “Holiday Album” si rivela disco davvero notevole, piazzandosi all’incrocio esatto tra un power pop sorretto da chitarre hard e il punk settantasettino che occhieggiava ai sixties britannici. Con Jamie Crompton a sostituire Perry alla batteria, la band di Gordon, Allison e Macleod avvia le danze con gli staccati delle chitarre di “Radio Stars” che ci proiettano in zona power pop alla Knack; segue Boy Meets Girl il cui ritornello immagina un Bowie voce solista degli Slade e una Baffin Island il cui riff hard rock con venature funky trova sfogo in un ritornello che si distende brit-pop.
Il lato A del vinile prosegue con il rock blues sudato di (I’ve Got Dem Old) Sex In Chains Blues (Again Mama) che alla lussuria del Delta preferisce quella del glam, con la melodia kinksiana di Sitting In The Rain, piccolo classico mancato che non dovrebbe mancare agli appassionati di certe vibrazioni sixties e infine The Real Me che è la staffilata punk tra Buzzcock, Undertones e Jam che faceva impazzire i tipi del Championship Vinyl di High-Fidelity.
Il lato B si apre con l’hard rock stentoreo di Rock’n’Roll For The Time Being Hard, appesantito da qualche sbrodolamento di chitarra di troppo e si riprende con una versione tirata, ma molto rispettosa del classico beatlesiano Norwegian Wood e soprattutto con le buone melodie di Get On A Plane e di una I’m Down che recupera il glam di Ziggy e dei suoi Ragni da Marte.
Il trittico finale mette in fila l’irresistibile proiettile punk No Russians In Russia, la cui furia viene subito stemperata da It’s All Over, ballata stracciona come piaceva fare ai delinquenti del rock n’ roll che, a cavallo tra i settanta e gli ottanta, si scoprivano romantici. Chiude tutto il breve frammento di Goodnight che fa calare il sipario sulla nostra storia.
Allison infatti lascerà morire la sigla, mentre Gordon si trasferirà a Parigi per lavorare come produttore per la label locale Barclay Records. La cosa più eccitante che gli capiterà sarà di imbucarsi negli studi di registrazione dove erano in corso le sessioni parigine di “Emotional Rescue” dei Rolling Stones. Vista l’assenza di Bill Wyman, gli viene chiesto di suonare il basso per ben due giorni. Delle sue parti non vi sarà traccia nel disco, ma la sua sola presenza sarà sufficiente a far pensare alla stampa (che gli dedicò pure alcuni servizi) che fosse lui il prescelto alla successione di un Bill Wyman di cui già si ventilava l’ipotesi di una separazione dalla band.
Equivoci giornalistici a parte, Gordon non ha mai lasciato il mondo della musica: ha continuato a suonare, proponendo progetti effimeri (i Blue Meanies), partecipando ad alcune reunion altrui (John’s Children) e lavorando in studio per tanti artisti inglesi come George Michael, Boy George, Blur, Primal Scream, Kylie Minogue.
Io, dal canto mio, conservo gelosamente la mia copia di “Holiday Album”, un vinile trovato a due lire in un negozio di dischi che non posso che ringraziare perché, come dicono i tipi del Championship Vinyl: “Le cose che ti piacciono sono più importanti di come sei fatto tu”.
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