Sono passati quasi due anni da quando ho scoperto per caso che vicino casa mia avrebbe suonato Conrado Isasa, un chitarrista spagnolo di origini uruguaiane, associato al mondo della cosiddetta American Primitive Guitar, ma che mi si diceva fosse in possesso di uno stile molto personale. La scoperta avvenne tramite Facebook e grazie all’invito di un “amico” (in senso facebookiano, poiché non ci eravamo mai incontrati di persona), Simone Romei: a sua volta chitarrista fingerpicking, ma anche songwriter raffinato che avevo conosciuto nel 2018 grazie al bellissimo “Like Freshly Mown Grass” a nome Des Moines. Pur non conoscendo la musica di Isasa decisi di andare al concerto. Conobbi così sia la musica di Isasa che Simone con il quale parlai parecchio (di musica, musica e ancora musica ovviamente). A seguito di quell’incontro, delle chiacchiere di quella sera e di tutte quelle seguite via etere da allora in avanti, non appena abbiamo saputo dell’uscita del nuovo disco del chitarrista spagnolo, è sorta spontanea un’idea: chiedere a Simone di parlarci, da musicista, ascoltatore e amico, di questo tanto straordinario quanto, ahimè, poco conosciuto artista madrileno.
Mason
Teo: Quaranta!
Gabriel: No no, non quello.
T: Quindici?
G: Marrone?
T: Verde!
G: Conta da cento a uno in inglese…no, da dieci, scusa, da dieci a uno. Te lo dico: ten, nine, eight, seven, six…
T: Seven! Eight, nine, ten, elevennn!!
G: …one, zero. Va bene, non importa Teo… dimmi un altro numero.
T: Dieci!
G: Grigio? … Dai su!
T: Rossssso!
G: fai lo zombie… per un’ora! Sessanta minuti così…
[dialogo da “Fradernidad”, traccia n. 8]
Due fratelli giocano al quadrato magico, mentre una chitarra scandisce accordi sospesi. Scelgono i colori, dietro ad ogni colore c’è una frase che dice loro cosa fare.
Iniziava più o meno così anche un film dei primi anni duemila di Richard Linklater. Waking Life si intitolava. Nel film, alla fine della conta sul quadrato magico, la bambina scopriva la frase dietro al colore: ‘Il sogno è il destino’. Tra le altre cose, si parlava dell’esperienza del sogno lucido, ovvero del sognare sapendo di stare sognando. Al protagonista venivano dati alcuni consigli su come accorgersi di essere in quello stato. Gli veniva detto di provare a leggere l’ora o spegnere la luce: mentre si sogna queste sono cose che non si riescono a fare.
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È il 22 marzo del 2017 e sono a suonare a “Mani Tese”, Finale Emilia, Modena. Il batterista della band spagnola che si esibirà dopo di me mi mostra un breve video che mi ha fatto durante il soundcheck, dice che l’ha inviato a un suo amico di Madrid, anche lui chitarrista appassionato di fingerpicking. Parlando di musica, gli confesso che uno dei miei artisti preferiti del momento è per l’appunto un madrileno che si chiama Conrado Isasa. Incredulo, Marcos dei Betunizer mi guarda a bocca aperta: l’amico di cui mi ha appena parlato è proprio lui!
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Gennaio 2018: sono nel mio letto, sto sognando di essere negli Stati Uniti. Sono a un festival di musica e, dopo un suo concerto, conosco uno dei miei chitarristi preferiti di sempre: Daniel Bachman. Mi sveglio felice come un bambino.
Pochi giorni dopo, leggo da qualche parte che in aprile si svolgerà a Takoma Park – città del Maryland che ha dato i natali a John Fahey – un festival dedicato alla cosiddetta “American Primitive Guitar”, chiamato Thousand Incarnations Of The Rose. Compro immediatamente il pass completo per tutti e tre i giorni, il terzo, oltre a Bachman, si esibirà anche Isasa.
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È il 15 aprile del 2018, il terzo giorno del festival. Sono a Takoma Park, nel backstage del centro polivalente della città. Auguro a Isasa buona fortuna pochi minuti prima che inizi a suonare. Mi guardo attorno e la luce primaverile invade il corridoio in cui sono rimasto per qualche istante, immobile come un fiore.
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Maggio 2019, venerdì 17. Io e Conrado siamo a Riccione, l’aria è ancora fredda e la primavera tarda ad arrivare. Stiamo mangiando in un piccolo ristorante sulla spiaggia di fronte all’hotel della famiglia di Alice e il mare, opaco, dietro di noi si è leggermente increspato. Tra poche ore, Conrado suonerà proprio nella hall dell’albergo uno dei concerti del breve tour che ho organizzato per lui in Italia. La sera, dopo l’evento, berremo un drink sotto la veranda. Davanti a noi Riccione, fuori stagione, deserta sotto la pioggia.
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È il 28 gennaio del 2021. Da quasi un anno la pandemia che ha messo in ginocchio l’umanità non sembra aver voglia di darci tregua. Ho appena finito di ascoltare in anteprima l’album di Conrado, intitolato semplicemente “Isasa”, che uscirà ufficialmente il 5 marzo 2021 per La Castanya, etichetta indipendente di Barcellona. L’ho ascoltato in dormiveglia e sulle note finali di “Teo” mi sono alzato dal divano. Di fronte a me Veronica sta leggendo un libro seduta al tavolo, alza gli occhi e mi dice allusiva: “È dura ascoltare Conrado, eh?”.
Sì, è dura. Perché la sua musica evoca quello che nella vita di tutti i giorni resta nascosto, celato dagli inutili rumori del superfluo. E pensare che è così semplice a volte, basta scostare un velo leggero e tutto è lì sotto, immobile come un animale selvatico che ricambia il tuo sguardo per un solo momento sospeso nel tempo e poi scappa. E la musica di Isasa quei momenti li svela e li ricongiunge, è la prova – intangibile – delle cose che non si vedono.
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Come si legge da qualche parte, tra il 1997 e il 2003, Conrado Isasa ha suonato la chitarra elettrica nel gruppo post-rock spagnolo A Room With A View. Dopo il loro scioglimento, ha smesso di suonare la chitarra e non ha registrato nulla per un po’. Ha iniziato a imparare a suonare la tromba, ma nel 2007 ha trovato ispirazione per tornare alla chitarra dopo aver sentito Geoff Farina suonare una canzone di Mississippi John Hurt. È così entrato in un nuovo periodo di apprendistato spostando il suo interesse sulla chitarra acustica e studiando i pezzi di Hurt, John Fahey, Jack Rose e Glenn Jones.
Durante la sua esibizione a Takoma Park, nei pochi timidi interventi tra un pezzo e l’altro, Conrado parla proprio del motivo per cui è lì a suonare e cioè il DVD “The Things That We Used To Do” contenente le esibizioni alla chitarra di Glenn Jones e Jack Rose. Quel film, dice Conrado, gli ha cambiato la vita e gli ha aperto nuove strade e possibilità espressive sullo strumento che aveva completamente abbandonato dopo l’esperienza elettrica con la sua band.
Attraverso i tre dischi precedenti – Las Cosas (2015), Los Dias (2016) e Insilio (2019) – Isasa definisce il suo suono e il suo stile, abbandonando gradualmente le influenze dei suoi maestri in un percorso introspettivo volto a trasformare in musica ciò che resta dentro dopo aver vissuto, gli strascichi emotivi della vita di tutti i giorni. Ascoltare un disco di Isasa è come leggere il suo diario che trascende la quotidianità per raccontare ciò che a parole non si riesce a spiegare. I titoli delle canzoni sembrano un appunto, un suggerimento a qualcosa di riconoscibile, ma che nelle note della chitarra assume un significato intimo e riservato e ciononostante universale.
L’assenza è una vertigine che ci lascia smarriti: la canzone “Ausencia” è registrata fuori dallo studio di registrazione. La libertà è quella intima e privata dei piccoli momenti che riusciamo a ritagliarci tra gli accadimenti di questa vita atroce. “Libertad” è stata registrata durante un soggiorno/residenza artistica nello spazio Konvent di Barcellona.
L’acqua – che sia il mare di Carrasco o di Pocitos a Montevideo, o quello di Riccione, l’oceano illuminato da un faro o una timida pioggia estiva che si trasforma in acquazzone che inzuppa la tua maglietta preferita – è l’elemento che forse custodisce i ricordi più profondi.
L’amore – universale, per una donna, presente o assente, che sia sentimento di fratellanza, riferito ad un ricongiungimento familiare o quello per i propri figli Teo e Gabriel – è ciò di cui Isasa non parla, ma con cui riempie ogni nota e ogni pausa della sua musica.
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16 maggio 2019: sto guidando per raggiungere Milano. Conrado, il mio passeggero, quella sera suonerà al Volume, un meraviglioso negozio di dischi e libri della prima periferia della città ancora estranea alla megalopoli. Il sole, filtrato dai vetri ancora impolverati di inverno, ci scalda i volti e, nel tranquillo traffico pomeridiano dell’Emilia che muta in Lombardia, Conrado mi racconta del significato del titolo dell’album che stava promuovendo in quel periodo ovvero “Insilio”.
“Insilio” è l’esilio interiore, ovvero ciò che una sua zia di Montevideo, diversi anni prima, ha fatto per dieci anni, come forma di contestazione del regime uruguaiano dell’epoca. Dieci anni chiusa in casa, dieci anni di rifiuto della vita pubblica. Mai mi sarei immaginato di pensare così spesso a questa storia solo un anno dopo, chiuso in casa per il lockdown. Ero convinto che quelli fossero i giorni di un nuovo inizio, fatto di concerti quasi carbonari per una nicchia di persone appassionate, artisti ospiti a casa mia e notti passate a parlare di musica.
Quel giorno per esempio, da Volume avremmo incontrato Enrico Marcandalli, chitarrista che negli anni ‘80 in Italia aveva contribuito a diffondere il verbo di John Fahey, di Robbie Basho e di tutta quella schiera di chitarristi oscuri i cui nomi qui, nell’Italia culturalmente morente di quel periodo, ma non ancora cannibalizzata da una certa politica della sciatteria che avrebbe inesorabilmente intaccato e ridotto all’osso il nostro tessuto culturale pochi anni dopo, brillavano di luce propria, ammirati da ricercatori d’oro e onironauti di provincia.
Dicevo: Enrico Marcandalli, Isasa ed io, in un negozio di dischi e libri a Milano, dopo un concerto, a parlare di musica con un ragazzo appassionato che dice di avere un blog che si chiama La Linea Mason & Dixon.
Provate voi in quei momenti a spegnere la luce.
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