Ok. Vado?

Vai. Vediamo se hai studiato…

E tu?

Io cercherò di restare sveglio, mentre parli…

Dall’altra parte SirBilly mi restituisce uno sguardo che finge noia. Ma io so che quando si parla di Fall lui non si annoia mai…

Mi sento un po’ sotto esame, come quando ero ragazzino. Il vegliardo che ho di fronte i dischi dei Fall se li è vissuti tutti in diretta, così come gli innumerevoli cambi di formazione della compagine di Manchester. Il tema della chiacchierata saranno i Fall come “band” e l’obiettivo sarà quello di sfatare il mito del gruppo di gregari di cui si serviva il Grande Bastardo al fine di ottenere il suono che aveva in testa. Il mio nervosismo deriva dal fatto che, agli occhi del Sir, tutto questo potrebbe apparire come una sorta di lesa maestà o più semplicemente come una solenne cazzata.

D’altronde, gli aneddoti su come Mark trattava i propri musicisti non mancano di certo: dalla fuoriuscita dal gruppo di Martin Bramah che a vent’anni “non voleva cominciare a vivere in una dittatura”, al famoso episodio di Phoenix, quando Ben Pritchard, Steve Trafford e Spencer Birtwistle lo mollarono in pieno deserto nel 2006 (Mark la prese bene: nella sua autobiografia definisce con disprezzo questi rappresentanti della “Beckham generation” come “lads with not guts” e il disco successivo fu intitolato “Reformation! Post TLC”, dove per TLC si intende “traitors, liars and cunts”… ). Senza considerare la famosa frase da molti citata: “Se siamo io e tua nonna ai bonghi, quelli sono i Fall”.

Eppure a mio avviso, nel corso della loro lunga vita, i Fall sono stati dapprima una giovane band – acerba, irripetibile e purtroppo durata pochissimo – poi un combo dalla geometria variabile ma stabilizzata da due solidi pilastri e, infine, dopo un lungo periodo di confusione, una formazione rocciosa e stabile al servizio del Capo.

La prima a mollare era stata la tastierista Una Baines, all’epoca fidanzata di Mark, che era rimasta nel gruppo per un solo EP, il tempo di capire che era meglio cambiare aria e formare qualcos’altro. Che poi sarebbero i Blue Orchid messi su assieme al chitarrista della prima formazione dei Fall, Martin Bramah che molla anche lui (per tornare brevemente solo nel 1990 con “Extricate”). La prima conseguenza è che Marc Riley dal basso si sposta alle parti di chitarra che condivide con il nuovo innesto Craig Scanlon e libera il posto di bassista a Steve Hanley.

Eccoli, Craig e Steve! Insieme sono i John “Drumbo” French di Mark E. Smith: vessati e innamorati delle bizze del capo, saranno i pilastri che reggeranno l’affaire Fall per più di quindici anni e oltre 17 album (Craig andrà via con “Cerebral Caustic” del 1995, mentre Steve mollerà due dischi dopo nel 1997 con “Levitate”).

A sedere dietro la batteria si alternano in parecchi, ma soprattutto Paul Hanley (fratello di Steve) e, più a singhiozzo, il batterista già presente nell’esordio Karl Burns: contemporaneamente i due daranno vita alla migliore formazione dei Fall di sempre che, oltre a Craig e Steve, contemplava infatti la presenza di una doppia batteria (la si può ascoltare nei due capolavori “Hex Enduction Hour” e “Perverted by language”).

Jawbone and the Air-Rifle

A quel punto, a dare un tocco di glamour, irrompe Brix Smith, americana e bellissima, che sostituisce Marc Riley alla chitarra (che avvierà una carriera da speaker radiofonico) e modifica non poco gli equilibri della band, che si accasa presso la Beggars Banquet con un suono più potabile e meno estremo.

Quando Brix molla è il 1988 (anno di “I am kurious Oranj”), iniziano i Novanta e al nucleo formato da Mark, Steve e Craig si unisce in pianta stabile il roccioso Simon Wolstencroft (in formazione da “Bend Sinister” del 1986 fino a “Levitate” del 1997, per un totale di 11 album). Ma l’innesto principale del periodo, almeno nell’economia del suono, è quello di Dave Bush se non altro perché – dal 1991 (“Shift-work”) al 1995 (“Cerebral Caustic”) – declina il ruolo di tastierista (che chissà perché MES aveva sempre affidato e in seguito affiderà solo a donne: Una Baines, Yvonne Pawlett, Marcia Schofield, Julia Nagle e infine Elena Poulou) in maniera più elettronica, cercando – tra sequencer e programmazioni – di traghettare il post-punk incasinato della band verso le pulsioni acid-house della coeva scena madchesteriana che d’altronde tantissimo doveva a Smith e soci.

Qualcosa però non funziona, gli aromi industrial risultano mosci e l’effetto dell’ecstasy sembra annacquato dalla troppa birra che gonfia il ventre della band. Finisce che i dischi migliori del decennio si trovano nella seconda metà con il trittico “The Light User Syndrome” (dove ritroviamo Brix che, rientrata già nel disco precedente “Cerebral Caustic”, mollerà subito dopo questo episodio), “Levitate” e “The Marshall Suite”.

[Jung Nev's] Antidotes

A fine decennio, Mark si ritrova senza Craig, senza Steve, senza Brix e senza i batteristi che era solito far girare (Karl Burns, Simon Wolstencroft, Paul Hanley). C’è da ricominciare da capo e il nuovo secolo si apre nel segno della confusione. L’unica certezza sembra essere la sua compagna Julia Nagle, che sostituisce Dave Bush alle tastiere, occupandosene dal 1996 al 2000 (ovvero da “The Light User Syndrome” fino a “The Unutterable”). Ma persa anche Julia, MES licenzia tutti e sembra appoggiarsi sulla chitarra di Ben Pritchard che prende il posto dell’ottima meteora Neville Wilding, suonando da “The Unutterable” fino a “Fall Heads Roll” del 2005: tra i due finirà malissimo – come raccontato prima – nel deserto di Phoenix.

L’unica che gli resta fedele è Elena Poulou: entrata nella band con “The Real New Fall LP – Country on the Click” del 2003, rimarrà nella band fino alla fine (salterà giusto il capitolo finale “New Fact Emerge”).

Dopo un ulteriore periodo di assestamento ( o di confusione) nel quale passano anche diversi ottimi elementi (come ad esempio il chitarrista Tim Presley responsabile delle chitarre di “Reformation Post TLC”), si arriva nel 2008 a “Imperial Wax Solvent” disco in cui suona per la prima volta la formazione finale dei Fall (Peter Greenway alle chitarre, David Spurr al basso e Keiron Melling alla batteria), che si farà carico degli ultimi sproloqui di MES, con i massimi risultati nel suddetto album del 2008 e in quello del 2015 “Sub-Lingual Tablet”.

The Fall - Auto Chip 2014-2016

Ho dimenticato qualcuno?

Non saprei: ti ho perso dopo le prime due righe…

Ok, ok. Partiamo dall’inizio, allora. In un tuo articolo dicevi che la migliore formazione dei Fall è quella iniziale con Baines, Bramah, Burns e Friel? Perché pensi questo?

Perché è lì e in quell’unico momento che i Fall sono stati una band. Un gruppo vero e reale, appoggiato su geometrie. Irripetibili perché ‘assieme’ hanno inventato una macchina del tempo, un ritorno al futuro. Qualcosa che c’era già ma nessuno aveva mai avuto modo di vedere o accorpare. Bramah, Baines, Burns, Smith; per me è questo l’Antico Testamento. Le tavole della legge. Poi è stata una faccenda del solo Mark. Ok ci sono stati capolavori, dischi bellissimi, immonde cazzate e onesto mestiere. Ma tutto, dopo i primissimi lavori, è concettualmente ascrivibile al solo Smith.

Negli anni Ottanta, la band presenta una potenza sbilenca e apocalittica. Gli unici inglesi a declinare minimalismo e ripetizione come nel rock era riuscito solo alla triade americana Velvet Underground-Captain Beefheart-Suicide?

In Inghilterra non vi era mai stato nulla anche solo lontanamente assimilabile ai Fall. Tutte le band inglesi venivano dai politecnici, dalle scuole d’arte. Certo, vi erano stati teppistelli come Lydon e Jones, ma l’humus del rock inglese è sempre stato ‘artistico’, permeato di stile. Penso a Bowie e Bolan, per dire. Beh, Mark Edward Smith ha scardinato questa consuetudine, sputandoci sopra. Contabile nei magazzini del porto di Manchester, avido lettore e consumatore di birra e anfetamine. Per lui il punk era già roba da vecchi. Quello che – musicalmente, per la figura di Smith ci vorrebbe un capitolo a parte – hanno fatto i Fall non era mai stato tentato prima. “It’s not repetition, it’s discipline” era solito urlare il Grande Capo Bianco. Beh, c’è già tutto. C’è la triade che hai citato, c’è il kraut di Neu e Can, c’è certo umore sixties di Sonics e compagnia, c’è la linguaccia tribale di Gary Glitter (le due batterie, no?). Uniscili, tutti questi puntini, dando una forma compiuta, se ne sei capace… Non a caso pochissimi i tentativi d’imitazione di questa settimana enigmistica. Forse solo i Nightingales ne hanno colto in parte lo spirito. Poi direi Happy Mondays e Sleaford Mods. Ma più come intenti che reale intelligenza sonora.

The Fall - "Theme from Sparta F.C."

Parliamo degli anni Novanta. Come giudichi la svolta acid-house e madchesteriana e i dischi “controversi” di quegli anni? Simon Wolstencroft aveva pure militato nella prima formazione degli Stone Roses, ma forse Craig e Steve erano ormai spompati… o forse la “colpa” era di Dave Brush?

Dei Fall non butto via nulla, fosse solo per sentire l’Hip Priest declamare con quella voce. Smith non ha mai nascosto di pubblicare un lp quando avesse avuto bisogno di 2000 sterline per pagarsi bollette e il pub, ergo… Su una miriade di lavori ci sta che alcuni (più di qualcuno, invero) fosse di caratura inferiore.

Per molti ragazzi di quella scena i Fall erano dei padrini (tu stesso citi gli Happy Mondays come una delle poche band che ne hanno colto lo spirito), ma ciononostante la band – a differenza ad esempio dei Joy Division divenuti New Order – non rinasce in quella nuova lucente veste… L’edonismo chimico non faceva per Mark?

Io credo che Smith abbia sempre piegato l’industria ai suoi dettami, mai viceversa. O meglio quest’ultima è sempre stata costretta a seguirlo, con il fiato corto. Arrivava, si pigliava quello che poteva interessargli e poi svicolava altrove. Non riesco a vederli in quel segmento acid, a dirla tutta. Non più di quanto li possa vedere nel Madchester quando acconsentì al cameo con gli Inspiral Carpets, per dire. Non lo puoi incasellare, uno come Smith. Resto dell’idea – e permettimi la divagazione, manco tanto astrusa – che il suo reale capolavoro fu quando si mise a leggere i risultati delle partite di prima divisione. Lì e in quel momento si capisce la trasversalità del rock and roll e l’influenza immensa che quel signore ha avuto sull’Inghilterra tutta. Lo dico da anni: per me vale un Cèline. Credimi, mi dispiace ‘fisicamente’ per chi non si è ancora convertito al verbo.

Veniamo infine all’ultima formazione post “Imperial Wax Solvent”? Giovani turnisti di area indie che svolgevano diligentemente il loro compito o qualcosa di più?

Ho avuto la fortuna di rivederli nel 2014 e mi sono sembrati potentissimi dal vivo. Quello che avevano guadagnato in coesione sonora però l’avevano perso in quel territorio anarchico e velenoso dove erano soliti sguazzare. Le due batterie rendevano il tutto più massiccio e circolare. Mancavano gli angoli, ecco. Cosa non da poco quando si parla dei Fall.

Gli “angoli” di cui parli, così come le lande “anarchiche e velenose” spariscono più o meno quando mollano Craig Scanlon e Steve Hanley… Questo perché ne erano i materiali responsabili o piuttosto perché era Mark che dava direttive diverse ai nuovi musicisti?

Mi ripeto allo sfinimento: per me la questione Fall è interamente ascrivibile al Sommo. Il resto è onesta manovalanza, perfettamente intercambiabile alla bisogna. Certo, magari qualche inflessione squisitamente musicale data dalla mano di questo o quell’altro comprimario poteva cesellare qualche ricamo diverso, ma la tela era sempre e comunque di Smith. Non riesco – personalmente – a vederci cambiamenti epocali nelle varie incarnazioni. Tolta la primigenia, ovviamente.

Quindi si trattava di fornire semplicemente un catalogo di riff di chitarra su cui far “parlare” Smith, tanto bastava il suo modo di “cantare” a rimettere tutto a posto? Era questa la formula segreta?

La formula segreta era sotto gli occhi di tutti. Si chiamava Mark Edward Smith. Una chiesa si edifica su un gran pontefice. Nel rock solo le monarchie assolute generano capolavori, la democrazia non può attecchire. Ogni grande gruppo rock ha bisogno di dittature e guerre civili al suo interno. Rammento, en passant, che l’uomo licenziò un fonico reo di aver ordinato un’insalata al ristorante.

Quindi vuoi proprio dirmi che, tolta la formazione iniziale di cui abbiamo detto, i vari musicisti sono stati per MES solo pedine da muovere nel proprio scombinato scacchiere?

Sì, ne sono certo. Avrei potuto essere io, lui e mia nonna ai bonghi. Sarebbero stati comunque i Fall. Apprezza la citazione, quantomeno.

Smith era spesso descritto come un gentiluomo con il pubblico, ma i suoi musicisti spesso dovevano sopportare angherie pazzesche (a parte Karl Burns: l’unico che pare lo menasse senza pensarci due volte…). Amplificatori spenti durante i concerti, pedali accesi o manopole girate a cazzo, girovagando in giro per il palco etc etc. Quando li hai visti dal vivo che impressioni hai avuto in questo senso?

Li ho visti due volte, la prima nel 1999 mi pare e – più che un concerto – fu una guerra psichica. Smith era letteralmente indiavolato e fece di tutto per sabotare il concerto. Spine staccate dall’amplificatore del chitarrista, batteria smontata a calci, dentiera in mano, interi pezzi passati a pettinarsi, offese. Se ne andò tre volte dal palco, per poi ritornare più incazzato di prima. La gente rumoreggiava, voleva vedere un concerto rock, voleva il sangue, le cazzate trite e ritrite, le attitudini falliche, la triade sesso droga e rock and roll. Con Smith non erano contemplate, con lui dovevi guadagnartelo il regno dei Fall. Non era facile. Finito il concerto lo raggiunsi in camerino, timoroso di venir respinto a sputi e calci in culo. Trovai un omino delizioso e di una gentilezza estrema. Aveva smesso di impersonare il ruolo del leader dei Fall ed era tornato Mark E. Smith.

The Fall - Garden - (Live at the Hacienda, Manchester, UK, 1984)