Dopo quasi quattro anni, con “Orange Synthetic”, tornano i Cobalt Chapel, duo inglese formato dal multistrumentista Jarrod Gosling e da Cecilia Fage impegnata alla voce, flauto e clarinetto.
Il primo e omonimo album mostrava una band esuberante che mescolava una scrittura di forte impronta folk con arrangiamenti ricchi di stampo progressive e un suono spazioso e psichedelico.
Nominalmente l’album in uscita il 29 gennaio 2021 sarebbe il secondo album, ma va annotato che tra l’esordio e questo secondo lavoro troviamo un episodio allo stesso tempo curioso e affascinante. Si tratta di “Variants”, album nel quale il duo decide di rivedere/remixare nove brani tratti dall’esordio dilatandoli e aumentando a volume 11 il tasso di psichedelia. Il risultato è un trip in piena regola, che sorprendentemente risulta forse addirittura più affascinante dell’omonimo esordio.
Veniamo però a “Orange Synthetic” che, come dichiarato dalla band, è un disco fortemente influenzato dal territorio dove il gruppo vive, lo Yorkshire, e che “si ispira all’umanità, agli aneddoti e al folklore della regione, alle creature e alle leggende del drammatico paesaggio che li circonda”. Il nome in particolare è legato a un singolare episodio accaduto proprio in quelle zone circa cinquant’anni prima. Si tratta di un festival jazz che, a seguito di una devastazione portata da una tempesta, vide molti degli spettatori rischiare la vita, mentre l’organizzatore fu costretto a vagabondare nella brughiera per interi giorni prima di essere ritrovato. Una singolare vicenda che, nel passare dalla speranza di gioia a momenti di terrore, sembra esprimere in maniera efficace, secondo Fage e Gosling, la sensazione di fine del mondo che sotto pelle inizia a diffondersi nella nostra epoca.
Paradossalmente però si tratta dell’album più solare del duo. Ne è subito prova l’apertura affidata a “In the Company”, brano con una verve di chiaro stampo pop e marchiato a fuoco da un ritornello accattivante e un finale psichedelico.
Il melodismo più marcato del brano non è un fuoco di paglia, ma anzi una delle caratteristiche più marcate di “Orange Synthetic”; il duo infatti mette un po’ da parte la componente folk e le elaborazioni prog dell’esordio in favore di una maggior immediatezza e di un aumento di gradazione nella scala “Stereolab”. I marchi di fabbrica che invece rimangono inalterati sono i due pilastri su cui si regge il gruppo. Innanzitutto la vocalità ammaliante e morbida della Fage, spesso rafforzata da cori dal sapore medievaleggiante e magico e in secondo luogo le tastiere vintage e gli organi assortiti di Gosling (pare ne possieda ben 19!) che conferiscono di volta in volta atmosfere ora gotiche, ora psichedeliche, capaci spesso di teletrasportare nello spazio-tempo del Canterbury sound.
Se questa è la pasta musicale di cui “Orange Synthetic” è costituito, c’è poi la glassa nella quale il disco è affogato; mi riferisco a quella patina hauntologica e spettrale che, pur giocando su terreni simili a quelli di gruppi come i Broadcast o come le band dell’universo Ghost Box (non ultimi i Beautify Junkyards di cui abbiamo parlato recentemente), riesce a suonare decisamente peculiare, grazie alla forte identità sonora che il duo innegabilmente esibisce.
Il risultato infatti è un pop dall’aspetto vintage, ma moderno allo stesso tempo. La coltre sonora, nebulosa e impalpabile, che avvolge le canzoni del duo crea infatti un effetto straniante e ambivalente. La musica dei Cobalt Chapel dà allo stesso tempo l’impressione di essere vicina, ma lontana: sospesa tra il miraggio di una band emersa da un passato indefinito e il gruppo del futuro immaginato o sognato da un ragazzo degli anni 60.
Abbiamo citato i Broadcast e proprio la band della compianta Trish Keenan rappresenta il riferimento più diretto della ondulante “The Sequel”, deliziosamente decorata da scricchiolii, melodie oblique e dal tocco retrò del clavicembalo di Gosling. Un ritmo incalzante, l’organo canterburiano e il ritornello reiterato: così “Message to” si conficca direttamente nel cervello dell’ascoltatore. E’ poi la volta della sorprendente “A Father’s lament”, forse il brano migliore o almeno quello più compiuto nella sua variegata complessità: uno strano mix di cori polifonici dal sapore folk, vampate di fiati, svisate di organo e synth, ma soprattutto di improvvisi e inediti intermezzi beach boysiani (quelli di “Pet Sounds”). “A dream within a dream” per dirla alla Edgar Allan Poe.
Il disco prosegue con l’ipnotica “Our Angel Polygon” e il mini trip con tanto di finale free di “Cry A Spiral”. Una melodia obliqua disegnata dall’organo introduce “It’s The end, the end”, che poi evolve in un brano con una ritmica imponente, quasi tribale, e dal tasso lisergico sempre crescente fino al notevole finale strumentale. Il trittico finale è da manuale: prima il trascinante valzer psichedelico di “Pretty Mire, Be My friend” e poi il ritorno del folk spettrale e delle polifonie medievali in “E.B.”, quasi esclusivamente vocale.
La conclusione è affidata ai sei minuti della intricata e fascinosa title track che si sviluppa attorno a una melodia sinuosa pennellata da Cecilia Fage, a fantasiosi break e agli interventi strumentali di Gosling.
Un disco dunque, veramente degno di nota che mostra sia continuità con il passato che evoluzione del proprio stile; un gruppo che non perde un grammo della propria capacità di fascinazione, pur esibendo un suono meno legato alla tradizione e più sostanziosamente pop. Se il 2021 inizia bene quindi è anche grazie ai Cobal Chapel e al loro Orange Synthetic.
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