Ci sono due modi di approcciare il nuovo disco dei Flaming Lips.
Il primo è godersi semplicemente quelle che, con buona probabilità, sono le migliori canzoni che Wayne Coyne ha scritto negli ultimi anni, giudicando di conseguenza American Head il miglior disco della band dai tempi di Yoshimi battles the pink robots.
Il secondo approccio può essere invece decisamente più critico: ci si può lamentare che l’anima freak della band sia venuta meno, avendo ceduto il passo a un suono più gentile, enfatico ed orchestrale, dove la psichedelia è stata soppiantata dalla nostalgia e il manierismo ha sostituito la stramberia. Tale approccio potrebbe, dunque, bollare American Head come un lavoro monodimensionale che, tralasciando tutte le altre componenti, si è soffermato solo sulla dimensione favolistica e melodica della band, privata però della consueta graffiante follia.
Oppure si può trovare una terza via che coglie nell’afflato nostalgico e accorato dell’operazione il senso stesso (e la bellezza) del disco.
Prima della pubblicazione, la band aveva rilasciato dichiarazioni che poi alla prova dell’ascolto erano parse piuttosto incongruenti: la morte di Tom Petty, icona di un certo classic rock a stelle e strisce, li aveva – a loro dire – portati a incidere il proprio disco “americano”, al fine di pagare pegno alla propria natura di american band. Ma dopo i primi minuti di American Head, era però parso chiaro che di Tom Petty e di “un certo classic rock a stelle e strisce” non vi era affatto traccia (ma davvero qualcuno si aspettava una versione stralunata degli Heartbreakers?!).
In verità, nella mente distorta dei nostri eroi, il desiderio di incidere un disco che pagasse pegno alla propria vita americana si è tradotto in un lavoro che è quintessenzialmente americano non tanto nei suoni, quanto nell’abbandonarsi ai ricordi legati alla propria vita americana (drogata) e ai loro amici americani (ehm… drogati). Ne è venuto fuori un crepuscolarismo dolce e meno disturbato del solito, che ha visto il proposito iniziale tradursi in un recupero del privato e della propria esperienza di ragazzi americani.
E dunque forse non è un caso che i testi del disco siano tra i più delicati e intimisti che i Flaming Lips abbiano scritto da molti anni: un Wayne a cuore aperto che non ha paura di esprimere le proprie paure (Flowers), la solitudine (When You Return), gli affetti (Brother Eye), l’amore come parte fondante della vita (My Religion Is You), le perdite (di nuovo When You Return, Mother Please Don’t Be Sad). E, ancora, un Wayne disilluso dalle promesse (Assassins of youth) e dalle esperienze della gioventù (Mother I’ve taken LSD/I thought it would set me free/but now it changed me/Now I see the sadness in the world), che non rinuncia a sognare (Dinosaurs), ma che inizia a fare bilanci e a confrontarsi con il giudizio umano e divino (God And The Policeman).
Tocca a questo punto avvisare il lettore che da queste parti i Flaming Lips sono una religione. The Terror è a nostro avviso un capolavoro e probabilmente siamo gli unici ad aver apprezzato anche il tanto criticato Oczy Mlody (ne spieghiamo qui le ragioni).
Eppure, paradossalmente, American Head ci aveva inizialmente delusi: nonostante l’evidente bellezza di alcune canzoni, avevamo scambiato la sua maturazione (umana più che musicale) per una resa delle armi, coincidente con l’abbandono dell’anima freak. Ma a ben vedere Wayne, Michael e Steven hanno semplicemente evitato di diventare la caricatura di se stessi e Wayne, in particolare, ha dimostrato di poter ancora pubblicare un disco di peso, liberandosi dall’immagine di folletto psichedelico, riflettendo piuttosto sulla propria condizione di uomo di mezza età. Il tutto senza apportare rivoluzioni evidenti, ma lavorando di cesello e lasciando che tutto l’immaginario tipico dei Flaming Lips rimanesse presente, ma risultasse in qualche modo modificato.
Si guardi ad esempio alla produzione del disco, firmata come di consueto da Dave Friedman: rispetto alle produzioni aggressive e ipercompresse del post Soft Bulletin (dove la gestione delle sonorità diventava il vero sostituto del rumore delle chitarre elettriche: come a dire “suoniamo pop, ma non siamo puliti, siamo sempre dei freak rumorosi e poco educati”), quella di American Head risulta meno spinta, quasi desaturata e volta a disegnare, pur senza rinunciare a nessuno degli elementi tipici del sound del gruppo (suonini di tastiere e colori fluo, melodie che fluttuano solitarie appena sorrette dalla flebile voce, chitarre che cesellano con break psichedelici), una nuvola, morbida e onirica, perfettamente a tono con lo sguardo nostalgico del disco.
Insomma, tocca ancora una volta dare atto a questo gruppo di drop-out, che sta in giro da oltre 40 anni, di aver messo a segno l’ennesimo centro. Di aver dimostrato – sornioni – che si può cambiare senza quasi dare l’impressione di averlo fatto e di averci regalato, facendo i conti con la propria realtà, l’ennesima gemma.
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