A un anno e mezzo dal delicato e intimo “Border Ballads” torna Richard Skelton con un nuovo disco. Ritorna per modo di dire perché l’artista inglese, come da sua abitudine, non se n’è mai andato… Il suo percorso infatti non segue la classica routine discografica delle uscite cadenzate, ma va considerato come un continuum nel quale l’espressione artistica dell’autore viene declinata in maniera costante attraverso forme e modalità diverse: ci sono i lavori che escono regolarmente ed esclusivamente in digitale su Bandcamp per i sottoscrittori di Aeolian Editions, le opere su commissione o correlate a tematiche sensibili come il riscaldamento globale, le composizioni legate a performance e opere multimediali e lavori in ambito letterario, pubblicate dalla propria casa editrice Corbelstone Press. Questa vivacità artistica non va confusa con una bulimia produttiva, ma va inquadrata in una profonda identificazione tra vita e arte. In quest’ottica l’intera opera musicale (e non) di Skelton (unitamente a quella letteraria della moglie Autumn Richardson) disegna un cammino che seppur non privo di svolte appare del tutto “naturale” (termine non scelto a caso).
Il nuovo disco “These charms may be sung over a wound” rappresenta la prima pubblicazione (dopo un lungo inseguimento) per l’etichetta Phantom Limb ma soprattutto costituisce una di quelle curve di cui si parlava prima perchè, per usare l’efficace definizione presente nella cartella stampa, “Skelton ha abbandonato del tutto la strumentazione acustica per tracciare un nuovo territorio di onde quadre e sinusoidali, immerso in nuvole scintillanti di distorsione e sospeso su paesaggi di bassi vibranti”.
Cambiamento non da poco perchè la cifra sonora di Skelton è legata soprattutto alla capacità di traslare e interpretare la visione della musica ambient attraverso la lente della dimensione acustica. Se variano i fattori però non cambia il campo di ricerca in quanto l’interesse del compositore inglese per il rapporto tra uomo e natura e, in particolare per la dimensione arcaica, resta immutato. Titolo e brani derivano infatti dai “leechdom”, termine che anticamente indicava dei medicamenti che spesso richiedevano la recitazione di incantesimi (i charms del titolo) per aumentarne l’efficacia; non sappiamo se la scelta di questo filo conduttore abbia a che fare con la situazione legata alla pandemia e alla speranza per la guarigione di un mondo climaticamente e clinicamente ammalato ma di certo dona una sorta di singolare attualità all’album.
Oltre alla virata verso l’elettronica, il disco presenta un’altra novità sostanziale ovvero l’utilizzo delle percussioni: non si tratta certo di una conversione al dance floor, ma risulta evidente come la presenza di pulsazioni ritmiche percussive conferisca un aspetto inusuale all’opera.
La breve “Viscid Substance” illustra il primo incontro con la nuova componente elettronica, ma non sembra introdurre mutamenti radicali: alla stratificazione di droni acustici e agli archi stridenti si sostituisce un tappeto elettronico ondulante sui cui si posano luminose e lontane ondate melodiche; l’atmosfera serena e contemplativa del brano è però ingannevole perché da quel momento in poi le sensazioni mutano.
Già in “Against All Tenderness Of The Eyes” l’atmosfera si fa cupa e il brano è cadenzato da accordi cavernosi di tastiere e da un battito lento e reiterato. La dimensione rituale dei “leechdom” viene resa da un battito percussivo avvolto in un’atmosfera elettronica, misterica e ieratica, enfatizzata dal lento crescere dell’intensità che emula il rapimento ipnotico.
Il brano successivo “For Either deadened and undeadened” introduce un altro elemento sonoro fondamentale per il disco ovvero il rumore: il brano viene infatti lentamente ricoperto da una coltre di distorsioni estatiche che richiamano ascendenze post rock e shoegaze in un processo non dissimile da quello di un artista come Tim Hecker.
A completare il quadro arriva “For The Application of Fire”, vero e proprio culmine dell’album: in esso troviamo infatti tutti gli elementi sino a ora elencati declinati però in un’atmosfera ancor più plumbea e caratterizzata da sonorità industrial. L’andamento grave (e quasi soffocante nel suo ineluttabile crescendo) trasporta l’ascoltatore in atmosfere decisamente inedite per la musica di Skelton. Il risultato è che la dimensione rituale originale, quella arcaica dei medicamenti-incantesimi, viene trasfigurata in maniera sorprendente in una modernità resa attraverso sonorità marziali affini a certa musica industrial.
Questo dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che Skelton non è un conservatore o un estremista che rifiuta in toto la modernità, ma semplicemente uno studioso della natura (umana e nel suo complesso) che investiga e restituisce attraverso la musica e i mezzi di espressione più adatti.
Dopo la parte centrale il disco sembra poi uscire dall’oscurità verso la luce, forse a emulare il processo di guarigione dopo la manifestazione del dolore della sezione centrale. I brani finali mostrano infatti una dimensione più estatica ed eterea con i battiti che si fanno via via sempre più impercettibili.
Per chiudere e rimarcare ancora una volta come Skelton non sia un autore mono dimensionale invitiamo chi sia interessato ad ascoltare anche “Song To Vega”. Il brano pubblicato solo in formato digitale su Bandcamp, che mostra l’artista inglese sempre nell’ambito della strumentazione elettronica ma con atmosfere e risultati decisamente più solari, dimostrando come alla base di ogni progetto, al di là del mezzo espressivo prescelto, ciò che contano sono la visione e il talento dell’artista.
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