Chi ascolta gli Sleaford Mods per sentirsi al passo con i tempi non ha capito nulla della loro musica. Gli Sleaford Mods fanno infatti musica per vecchi.
La loro capacità di farsi amare dalle persone che mandano continuamente a quel paese è la medesima che aveva Mark E. Smith, i bassi continui e plettrati sono gli stessi di quel minchione di Peter Hook nell’attimo esatto in cui mandava in rosso tutti i conti dell’Hacienda, la bile e la saliva sono quelle dei vecchietti che guardano i cantieri fermi e non possono nemmeno dirti dove stai sbagliando, il flow del cantato è lubrificato dall’acidità di stomaco che ti sale a una certa età dopo la terza pinta e, infine, la padronanza del lessico è la medesima del disoccupato che, superati abbondantemente i quaranta, non ha mai visto un film di Ken Loach e francamente non gliene frega un cazzo.
Provate a dire a Jason Williamson e Andrew Fearn che fanno l’unico punk oggi possibile, provate a dirgli che sono “fottutamente rock n roll!”, provate a invitarli ai talk show, sperando di fargli replicare una certa serata nel salotto di Bill Grundy, ditegli che adorate la loro pronuncia inglese popolare e cafona, provate a dirgli come cercate sempre di spiegare ai loro denigratori quanto sono straordinari nel riciclare, con classe e senso della misura, gli ultimi quarant’anni di wave inglese (altro che basi improvvisate e tirate via!).
Provate a dirgli tutte queste cose o magari altre, certamente più argute, e quelli probabilmente vi manderanno a quel paese o, al massimo, vi riserveranno un sorriso di circostanza di quelli con il sottotitolo sotto (“ma questo che cazzo vuole?”).
Per quanto mi riguarda, io mi limito ad ascoltarli, sentendomi fondamentalmente un vecchio. Come loro, d’altronde, che hanno circa dieci anni più di me, ma a livello di dolori di schiena scommetto che stanno messi come il sottoscritto. Riconosco, infatti, nella loro musica quell’astio verso la vita che solo il mal di schiena sa darti, sabotandoti i movimenti in maniera sottile e senza smuovere a compassione nessuno: né a livello istituzionale/sanitario, né a livello di empatia personale. Per cui alla fine il dolore ti tocca tenertelo in silenzio e in silenzio bestemmi, accumulando un astio che poi, se hai la fortuna di fare musica, non puoi che far venire fuori liberatorio, ma senza troppa foga, però, perché chi soffre di mal di schiena deve stare attento ai movimenti troppo bruschi.
A voi “gente sana” potrà sembrare paradossale, ma sono certo che tutti i lombosciatalgici lì fuori mi capiscono e, sentendo la musica degli Sleaford Mods, saranno certamente d’accordo con me e col fatto che almeno uno di quei due, se non entrambi, soffrono sicuramente di questo male.
Un dolore cronico che alla fine si sopporta, per carità, come si sopporta cronicamente l’esistenza: un dolore “esistenziale”, insomma, nel senso più puro del termine.
Forse è per questo che li ascolto così tanto questi due avanzi di periferia, perché soffriamo degli stessi problemi: il mal di schiena, la vita, i soldi, il lavoro, la musica etc. E’ una questione anagrafica, temo.
Ah, sì, scusate: la raccolta in uscita in questi giorni che mescola alcuni dei brani più rappresentativi della loro produzione assieme a b-sides e inediti. Che dire? Si intitola “All that glue”. In copertina c’è disegnato un cesso pubblico che sa di piscio e sigarette bagnate sul fondo (e che cita l’opera “Fontana” di Marcel Duchamp… non male per due punk che si raccontano come illetterati e semi-analfabeti).
Sono due dischi, che durano in tutto 1 ora e 12 minuti (fonte spotify, ma ho comprato anche il cd, perché sono un vecchio). Più di un’ora, dunque, per ventidue canzoni, ma l’intero disco sembra durare meno di una canzone di Moses Sumney o dei Mourning (A) BLK Star.
Insomma scorre fila via bello liscio, al punto che ti senti in dovere di rimetterlo su appena finito, senza avvertire il bisogno di passare ad altro, magari al solo fine di rincorrere il flusso delle nuove uscite ed evitare di rimanere indietro con gli ascolti. Ti prende la fissa, insomma. Proprio come capitava quando eri giovane.
Ho il penultimo Eton… Che mi consigli di prendere? Grazie
Ciao Enri,
quello di cui scrivo è un ottimo compendio con una scaletta davvero ben congegnata. Se non lo hai preso, te lo consiglio.
“Eton alive” è uno dei miei preferiti: c’è qualche colore in più nella tavolozza e la scrittura dei brani risulta più curata, senza perdere di immediatezza e irruenza.
Per il resto, l’accoppiata “Divide and exit”/”Key markets” è stata quella che li ha visti affermarsi. Puoi cominciare da lì.
Grazie per la lettura.
A presto.
Dixon