ESSERE CIO’ CHE MANCA AL MONDO.
Era il 1995 quando Emidio Clementi rivelava a molti di noi che, nell’inverno del 1985, tutto quello che avrebbe voluto essere era Jim Carroll nell’attimo esatto in cui cantava “Wicked gravity”. E c’è da dire che molti di quelli che ascoltavano quella canzone, sentendosi “come il soffitto di una chiesa bombardata”, non avrebbero voluto essere altro che lo stesso Emidio, nell’attimo esatto in cui urlava in “Fuoco fatuo”. Questione di ricambi generazionali, suppongo: Emidio Clementi, con i suoi Massimo Volume, giunse per molti in un momento e in un’età in cui una canzone, un’attitudine, una visione spoglia ma viscerale delle cose possono ancora cambiarti la vita. A distanza di molti anni, qualcuno ha conservato, come una reliquia, il santino di quel gruppo; qualcun altro invece si è distratto, impegnato in faccende più importanti.
Emidio per esempio è andato avanti. Ha fatto tante cose (fra cui tornare a suonare con i Massimo Volume), ma è più o meno rimasto sempre fedele a se stesso. Ad esempio, non è più tornato a casa, così come si era ripromesso quel 26 dicembre del 1986 (cfr. “Ronald, Tomas e io”). Ma se è riuscito a non tornare più a casa, è perché ne ha trovata una nuova. Dopo aver rubato ad altri gli abiti da indossare e aver avuto la faccia tosta o il coraggio di far valere i propri limiti come fossero virtù, Clementi ha trovato finalmente una nuova casa nella parola. Dapprima urlata o strozzata, poi adagiata tra le tensioni e le stasi delle chitarre elettriche, infine pacificata nel bianco della pagina. Che bellezza, tutte quelle parole messe le une di fianco alle altre. Così ordinate e ordinanti. Ecco di cosa aveva bisogno. A costo di bluffare con la sincerità di chi dice: “Io l’ho detto da subito che non ero capace, siete voi che mi avete chiesto”. E se, a distanza di anni, vive ancora delle sue parole, forse per Emidio è arrivato davvero il momento di cominciare a credere nella propria sapienza nel maneggiare la materia. Dal 1997, anno del proprio esordio letterario, Emidio Clementi ha pubblicato sette libri: due raccolte di racconti e cinque romanzi. Il suo respiro è sempre piuttosto corto, il formato prediletto probabilmente quello del racconto e, se qualcuno gli chiedesse “dove peschi le tue storie?”, non avrebbe dubbi nel rispondere “dalla mia vita, da quello che mi circonda”. E risponderebbe con naturalezza, senza lasciare intendere come giungere a tale risposta gli sia invece costato parecchio…
Se è vero che ogni scrittore paga un prezzo per conquistarsi una poetica (che altro non è poi che la propria chiave di accesso verso il mondo della scrittura), Emidio Clementi quel prezzo pare averlo corrisposto, come racconta nel suo quarto libro “L’ultimo Dio”. Edito da Fazi nel 2004 e oggi ristampato da Playground, “L’ultimo Dio” è molte cose: un fallimento, una finta biografia, un’accorata descrizione di ordinarie solitudini, ma – soprattutto – la messa in scena della propria “educazione sentimentale” come scrittore. Che tale educazione venga esposta in forma di romanzo di formazione dalle tinte autobiografiche, la dice lunga sul rapporto tra Clementi e la materia che ha da subito eletto ad argomento prediletto dei suoi scritti, ovvero – come si diceva – la propria vita. E sicuramente uno dei motivi di maggiore interesse dell’opera letteraria di Clementi è dato dalla peculiare maniera con cui vengono trasfigurati i fatti autobiografici, sottoposti a un lavoro di trasposizione talmente sottile da far sorgere nell’autore stesso, a distanza di tempo, dubbi circa il confine tra la realtà e la finzione letteraria.
Si diceva del romanzo “L’ultimo Dio” come di un fallimento. Il progetto del libro nasce, infatti, come biografia dello scrittore e poeta italiano Emanuel Carnevali. Nel 1914, all’età di sedici anni, Carnevali aveva affrontato il lungo viaggio verso gli Stati Uniti, dove si era misurato con i lavori più disparati e umili. Dopo aver imparato la lingua, aveva cominciato a scrivere direttamente in inglese le proprie opere, vergando pagine che strabordavano di fame di vita e di titaniche tensioni verso una realizzazione esistenziale e artistica che purtroppo non arriverà mai: Carnevali, dopo un mesto ritorno in Italia, si sarebbe spento nel 1942 in un ospedale psichiatrico di Bologna. Eppure le pagine febbrili di Carnevali, pervase da una parossistica enfasi, attraggono come una calamita il giovane Emidio, che proprio in quegli anni conduce una vita randagia che lo vede dapprima lasciare San Benedetto del Tronto, cittadina dove risiede – da ascolano – con la propria disastrata famiglia, per trasferirsi prima a Bologna, poi a Orebro in Svezia, per poi tornare – passando da Londra – a Bologna. “L’ultimo Dio” finisce ben presto per lasciare perdere la vita di Carnevali e raccontare quella di Clementi stesso (la vera biografia di Carnevali arriverà anni dopo nel disco “Notturno americano”), illustrando tutte le tappe ora elencate e senza tralasciare illuminanti episodi dell’infanzia dell’autore, nonché en passant la nascita e lo scioglimento del gruppo musicale di Clementi, i Massimo Volume. Un girovagare vacuo che porta però in dote la crescita di uomo che coincide con quella di scrittore. In particolare, da quel poeta finito male che Clementi sente così affine a se stesso, trae un consiglio (di scrittura) e un monito (per la propria vita). Carnevali, nel rendere poetica e interessante persino la pidocchiosa realtà di chi lavora nelle cucine, immerso nella più brutale solitudine, dimostra come “una storia vale l’altra, una vita vale l’altra, e che non occorre vivere chissà quale avventurosa vita per poter scrivere” (cit. Clementi). Ciò che conta è l’occhio dello scrittore, la sensibilità che consente di scorgere ciò che altri non scorgono. Vi è poi il monito: la parabola della vita di Carnevali, così simile in quel tempo alla sua, spesa tra camere in affitto, cucine di ristoranti e desiderio di fuga, finisce per essere un invito ad addomesticare il furore dello scrittore. Il fuoco, che rendeva Carnevali così vivo e inquieto, al punto da fargli desiderare di essere “ciò che manca al mondo”, va da un lato protetto per evitare che si spenga, dall’altro tenuto a bada, pena il suo divampare fino all’autocombustione. Il ritorno a casa, l’esperienza con i Massimo Volume e la scrittura finiranno per rappresentare il filtro che consentirà a Clementi di amministrare la propria insoddisfazione e la propria impagabile sete di vita.
E’ così che Clementi diventa scrittore, passando attraverso una solitudine e una indifferenza i cui morsi illustrano bene ciò che ha ucciso Carnevali ben prima che quel tozzo di pane lo strozzasse a tradimento nella clinica di Bologna. E le pagine che Clementi dedica ai suoi mesi randagi sono tra le più toccanti che possa capitare di leggere (su tutti il brano in cui si elencano i vari “angeli della misericordia”).
E’ così che Clementi diventa scrittore, ma il suo sarà un lento apprendistato.
UN LENTO APPRENDISTATO.
Quando Clementi “incontra” Carnevali ha già iniziato a scrivere qualche pagina. Aveva visto farlo al fratello e la cosa lo aveva incuriosito da subito. Il primo utilizzo di quelle pagine diventano i testi che, asciutto, recita nei dischi dei Massimo Volume e che gli valgono l’interesse di qualche addetto ai lavori: quelle parole sembrano possedere naturalmente una base letteraria (per anni ogni recensione tirerà in ballo il minimalismo di Carver), al punto tale che sembra naturale che il loro autore debba prima o poi avere a che fare con la pagina scritta. L’esordio letterario arriva nel 1997 e, con l’insicurezza tipica dell’esordiente, Clementi decide di rubare l’abito da indossare per l’occasione a un autore da lui molto amato: Sam Shepard. “Gare di resistenza”, edito da Gamberetti Editrice, non fa mistero di utilizzare la stessa struttura usata da Shepard nella celebre raccolta di racconti “Motel Chronicles”, che vede brevi testi poetici intervallarsi con racconti che raramente allungano il respiro per troppe pagine. Dopotutto non poteva che essere un americano a fornire la base su cui adagiare le parole incerte dell’esordio: gli americani non spaventano, non mettono soggezione come certi europei. Come scriverà lo stesso Clementi anni dopo, “è gente che aveva cominciato a scrivere con alle spalle lavori duri, spesso umili, senza una preparazione accademica (…). Qualcuno aveva conosciuto la fame, s’era scontrato con la vita, aveva trovato la scrittura e la scrittura lo aveva riscattato”. E questo riscatto è quello di cui va in cerca Emidio. Un riscatto beninteso del tutto privato e personale, volto a ricavare la forza necessaria per provare a comprendere il mondo che lo circonda. A officiare la cerimonia provvede Claudio Piersanti, scrittore italiano, appartato e rigoroso, che per l’occasione scrive una bella introduzione in cui illustra la natura dimessa dei racconti di Emidio (“Nei racconti di Emidio Clementi c’è un’atmosfera ricorrente (…): dev’essere già successo qualcosa, da queste parti. Di solito si scrivono storie che raccontano momenti cruciali, più o meno eroici, ma comunque fondanti, essenziali, e viviamo il pathos di questi avvenimenti davanti ai nostri occhi (…). L’originalità di Clementi sta proprio nel rendere conto del dopo”). Proprio Piersanti costituisce indubbiamente un modello (“un maestro” direbbe Emidio), per la sua prosa asciutta non dissimile d’altronde dagli americani che Clementi sente più affini. Rispetto all’enfasi che pervade ogni pagina di Carnevali, la prosa sobria di Piersanti sembra più adeguata alla letteratura che Clementi ha in mente. Così come maggiormente adeguato, avverte essere il passo corto del racconto che gli consente di proseguire quella stessa ricerca di sintesi presente già nei suoi testi musicali e di tenere a bada i propri limiti con un maggiore controllo sulla struttura della storia e sugli scarti (necessari?) tra l’esperienza vissuta e lo snodo narrativo arbitrariamente imposto dallo scrittore (“tra le mie mani l’immaginazione resta ancora uno strumento difettoso che ha bisogno di una base stabile per poter essere usata, la vita”). L’incontro con Carnevali ha spinto Clementi a pescare a piene mani nel proprio vissuto: ma la fiducia nei propri mezzi lo porta a utilizzare soprattutto le esperienze più peculiari (un viaggio in India, la permanenza in Svezia etc). L’esotismo in cui si rifugiano molti racconti (fra cui forse il migliore: “Madurai, un incontro”) mostra dunque come la fiducia nella propria capacità di rendere interessante il quotidiano non sia ancora raggiunta. Tuttavia, fra i racconti cominciano a fare capolino alcuni dei personaggi e dei fatti che verranno poi raccontati ne “La notte del Pratello”, che di tale capacità costituirà forse l’esempio più mirabile nella produzione di Clementi. La raccolta rimane dunque a metà strada tra l’autobiografismo cui si dedicherà l’autore, una narrazione di viaggi che nasconde un desiderio apolide di fuga e certi toni cupi dell’underground non solo letterario degli anni ‘90.
Se dunque, al netto delle incertezze tipiche di un esordio (e che spesso ne costituiscono ulteriore motivo di fascino), il primo passo di Emidio nel mondo della letteratura risulta convincente, il giovane scrittore deve vedersela con il pregiudizio che gli procura il suo venire dal mondo musicale e che si sostanzia nel sospetto che in fondo quello della scrittura sia solo un passatempo e che il nucleo della sua esperienza artistica si trovi fra le sette note e non tra le pagine stampate. C’è bisogno forse di un romanzo. Per convincere gli altri, ma soprattutto se stesso. E il romanzo arriva nel 2000 per DeriveApprodi e si intitola “Il tempo di prima”. Racconta di un uomo, Enrico, che fuggendo da una brutta storia (che andrà delineandosi nel corso del romanzo con alcuni corsivi/flashback) si rifugia in un hotel sperduto nell’appennino emiliano, costruito a ridosso di un laghetto artificiale. Tra le mura dell’hotel, la sua storia si intreccia con quelle di altri due personaggi: il cuoco argentino Edoardo e Arturo, il figlio mezzo matto del proprietario dell’hotel. Si tratta di un lavoro stilisticamente acerbo in cui l’autore tende a far parlare troppo i personaggi e in maniera eccessivamente letteraria. Il romanzo azzecca però l’ambientazione (Clementi si ispira a luoghi che conosce bene), la dolenza dei personaggi e il rapporto dialettico fra i tre protagonisti del racconto. A convincere soprattutto è la contrapposizione fra Enrico e Edoardo: il primo bloccato in un vuoto e amorfo immobilismo dallo scacco cui è destinata la propria ricerca di senso, il secondo invece votato a un dinamismo vitale che parte dalla consapevolezza dell’assenza di senso e approda al godimento del proprio percorso, nonostante questo preveda cadute dolorose, faticose risalite, alti e bassi, solitudini e miseria morale. Il rapporto fra il protagonista e Arturo invece introduce il tema della follia, intesa come desiderio di essere accettato, alle proprie condizioni (soprattutto artistiche ed estetiche), dal mondo, che verrà invece ben sviluppato nel romanzo successivo.
“La notte del Pratello” viene pubblicato nel 2001 da Fazi Editore (oggi ristampato nel catalogo Playground). Se per “Gare di resistenza” il modello dichiarato era “Motel chronicles”, per questo romanzo Clementi ruba gli abiti allo Steinbeck di “Vicolo Cannery“, capolavoro minore del grande autore americano, che anticipa peraltro alcune tematiche sviluppate poi dalla cosiddetta beat generation. Clementi decide di andare fino in fondo con la sua idea di autobiografia romanzata. Pesca dal proprio passato un periodo ben preciso e circoscritto, ovvero quello in cui risiede in una casa occupata di Bologna, sita in via del Pratello, e lavora come sgombera-cantine per tale Zaccardi. Ne viene fuori un lavoro perfettamente equilibrato, che dosa alla perfezione il tono comico, quello grottesco e le rare, ma efficaci parentesi liriche. A sfilare tra le pagine, è una galleria di personaggi sopra le righe, colti nei loro aspetti più parossistici, ma delineati con una cura tale da assicurarne credibilità e, in qualche modo, umanità (ad esempio la descrizione dell’agonia ospedaliera di Zaccardi è magistrale in tal senso). Il Caos che sembra informare l’eterogenea e spesso volgare fauna che popola il Vicolo Cannery bolognese viene contrapposto all’Ordine che vuole consegnare Via del Pratello a una nuova generazione di speculatori, pronti per la prima ondata gentrificante. Uno scontro che si conclude con l’apocalittica descrizione dell’ultima notte al Pratello: epico, delirante e farsesco festeggiamento che viene peraltro trasmesso in televisione, piratando il segnale. Come “Vicolo Cannery”, il romanzo cerca di restituire sulla pagina il vitalismo popolare di una strada che ospita un’umanità stracciona e conflittuale, accomunata – nella marginalità – da un reciproco senso di appartenenza e dalla indifferenza il mondo esterno (ad esempio Rigoni – forse l’unico personaggio un po’ troppo romanzato e letterario – si ritaglia il ruolo di “aristocratico della miseria”, nonché di capo riconosciuto della comunità). Qualcun altro però sogna di irrompere nel mondo borghese e di piegarlo alle proprie regole. Su tale desiderio viene costruito il rapporto tra il protagonista e il suo collega di lavoro Leo, che lo coinvolge in una sorta di apprendistato volto a elevarlo dalla sua misera condizione e farlo giungere, sprezzante e raffinato, a primeggiare nel mondo fuori dal Pratello. Leo risulta uno dei migliori personaggi usciti dalla penna di Clementi, che ne restituisce perfettamente il mondo interiore: solipsistico, imbevuto di cultura marginale e che lo colloca appena al di qua della follia (con qualche sforamento nella pericolosità vera e propria, come dimostra l’episodio della ragazza quindicenne). L’amicizia fra il protagonista e Leo finisce per mettere in scena un desiderio escapista non dissimile da quello di Carnevali. Si fugge dall’età adulta, dalla normalità fra le cui braccia siamo destinati a cadere, ma – a differenza del protagonista – in Leo, come nello Spinelli de “L’ultimo Dio” o nell’”Alessandro” dell’omonimo brano dei Massimo Volume, è possibile cogliere la disperazione del disadattato privo di una scelta, cui non resta che rifugiarsi nel proprio ricercato immaginario, non omologato e provocatorio. Chiaramente il piano di Leo, che vede nell’ascesa sociale del collega (fare “L’elegante”) il proprio riscatto personale, è destinato al fallimento. O forse… chi lo sa: provando a confondere i piani del reale e della finzione letteraria, se Leo vedesse l’elegante cinquantenne che Clementi è diventato, penserebbe che il piano non era poi così folle…
IL MESTIERE DI SCRIVERE.
L’uno-due costituito da “La notte del pratello” e “L’Ultimo Dio” dà sicurezza a Clementi, che a questo punto vuole giocarsi la carta del romanzo di grande respiro, dalla narrazione classica e capace di staccarsi dal dato autobiografico. Il nuovo romanzo vedrà, infatti, la luce per uno dei più grossi editori italiani, Rizzoli, e farà capolino nelle librerie nel 2009. Si intitola “Matilde e i suoi tre padri”, prende spunto dalla vita della moglie dell’autore e rappresenta un notevole cambio di atmosfera rispetto alle opere precedenti. Spariscono l’umanità marginale, le esistenze randagie, i lavoretti da due soldi, i personaggi che reagiscono autisticamente alla propria inadeguatezza, in favore di una pacata celebrazione del bisogno di normalità, che viene messo in scena tramite il personaggio della piccola Matilde. Il libro ne segue le vicende a ritroso, partendo dalla sua ribellione nei confronti della famiglia. Lo stile – asciutto, equilibrato, capace di soppesare ogni parola – risulta perfetto per rendere l’indolenza sentimentale ed esistenziale dei protagonisti. Eppure non sembra esserci la volontà di mettere alla berlina quel mondo borghese. L’atteggiamento dello scrittore (che coincide con quello della stessa Matilde) non si lascia mai andare a sentimenti negativi verso i familiari della piccola, aderendo piuttosto alla loro prospettiva, in cui niente sembra scalfire una noia imperante, che non consente scossoni, così come senza scossoni avverrà la sottile ribellione della bimba divenuta adulta. Il romanzo, nonostante si faccia apprezzare per alcuni aspetti, convince poco. Sembra quasi che Clementi non riesca a rendere al meglio fuori dal proprio elementi e che, solo sfruttando a suo vantaggio i limiti della propria scrittura e della proprio immaginazione, riesca a consegnare un lavoro convincente. Ben consapevole di ciò, l’autore non esiterà dunque ad archiviare il tentativo di essere “un romanziere dal grande respiro” e, per tutta risposta, il lavoro successivo sarà un libro di racconti in cui per la prima volta non avrà alcun timore a raccontare storie ambientate nel mondo della musica.
Le raccolte di racconti sono un po’ delle bestie nere nel mercato dell’editoria. Nonostante abbiano una dignità artistica che non scopriamo certo oggi, gli editori sono restii a pubblicarle e i lettori ad acquistarle. Lo scrittore che sente nelle proprie corde di avere il passo breve del racconto è ben preparato a sentirsi chiedere di allungarlo fino a ottenere almeno un romanzo breve o addirittura di inventare fili conduttori e iper-storie capaci di legare i vari racconti. Dopo il suo tentativo mainstream, Clementi torna così al racconto dopo quindici anni (in realtà ne aveva pubblicati alcuni in raccolte di autori vari) e quello che ne esce è un lavoro ispirato, dove l’elemento autobiografico ricompare in un unico episodio (Una settimana con Fausto), ma pervade tutti gli altri nell’affinità dell’autore con il mondo rappresentato: quello musicale. “La ragione delle mani”, edito nel 2012 da Playground, risolleva le quotazioni di Clementi dopo il passo falso di “Matilde e i suoi tre padri” e, con senso di austera bellezza e un’attenzione allo stile che si è fatto nel frattempo esemplare, racconta di bilanci esistenziali destinati a cogliere di sorpresa i loro protagonisti (l’impresario jazz che snocciola i suoi gustosi aneddoti, prima di illustrare il fallimento di una vita e la perdita dell’unica cosa che contava; l’unione viscerale tra due amanti che dopo anni forse si rivela come ciò che ha impedito a uno dei due di trovare il vero amore; il gesto di una mano e di un braccio che rivelano una postura di vita che preconizza la morte). Racconta anche di come l’arte e la musica possano essere pietosi inganni utilizzati per sentirsi diversi o per inscenare fallaci comunioni che, se svelate, rendono difficile proseguire nell’inganno.
Ultimo arrivato è “L’amante imperfetto”, edito nel 2017 sempre da Playground. Si tratta di un romanzo che racconta, alla stregua di “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler, un (presunto) tradimento che mette in crisi la tranquilla vita di una coppia borghese. La scoperta scatena nell’uomo la reviviscenza di antiche insicurezze circa la propria mascolinità, risalenti a quando da bambino aveva scoperto alcune foto del padre impegnato in un’orgia. Il romanzo presenta luci e ombre. Ascriviamo alle prime lo stile asciutto e ricercato e l’ottima gestione della seconda persona singolare: tutta la vicenda infatti è narrata rivolgendosi al protagonista e usando il “tu”. Uno stratagemma che enfatizza il tono psicanalitico che si instaura tra narratore e protagonista, impegnati in una sorta di privata confessione. Le ombre sono invece rappresentate dalla struttura narrativa del romanzo che sembra rimanere spezzato in due parti poco amalgamate fra loro. Dopo l’episodio iniziale del ritrovamento delle foto del padre, il romanzo ci conduce nel vizio in cui il protagonista sprofonda, tra locali di scambisti e squallido sesso a pagamento; in seguito a un’ellissi narrativa, nella seconda parte, ci presenta il protagonista sposato e perfettamente integrato nel mondo borghese. La notizia del blando tradimento della moglie provoca il crollo delle sicurezze del marito, evidentemente costruite sul terreno poco solido delle perversioni giovanili. Il crollo psicologico del protagonista porta il romanzo su altri territori (i meccanismi dei rapporti di coppia e l’idea dell’incertezza come elemento necessario per assicurarne la durata), mentre il raccordo con la prima parte appare debole sia nei toni che nell’intreccio.
Tra i motivi di pregio del romanzo vi è poi il ritorno a un autobiografismo sincero e senza pudori, che confonde i piani del reale e del fittizio.
Proprio queste considerazioni ci consentono di tornare per un attimo a quello che dicevamo essere uno degli aspetti più interessanti della poetica di Clementi, ovvero la maniera di utilizzare la propria vita all’interno delle storie che narra. Il suo è un approccio all’autofiction che rimane confinato allo scopo dell’indagine psicologica e non sembra subire nessuno degli influssi post-moderni che hanno invece caratterizzato le opere di molti autori che si sono misurati con questo stratagemma narrativo (ad esempio gli italiani Siti e Genna o i francesi Houllenbecq e Carrére).
Questo perché la scrittura per Clementi resta innanzitutto una questione personale: una maniera per fare chiarezza in se stessi e legittimare (giustificare?) agli occhi del mondo la propria “vita da artista”. Una maniera per mantenere in vita (ostentare?) quella profondità interiore che, se andasse sprecata, costituirebbe non tanto una sconfitta artistica, quanto umana.
Il gesto di Clementi è sempre terrigno, concreto, affabulatorio. Sia quando rimaneva legato alla fame di esperienza, sia adesso che a prevalere, nella sua prosa, sono le atmosfere borghesi e l’eleganza dello stile. Un’eleganza conseguita dopo un lungo percorso e la cui ricerca probabilmente è iniziata già ai tempi della vita nella provincia di Ascoli, quando il giovane Clementi sognava di scappare via, consapevole che i “vestiti buoni” sono quelli che ti consentono di cavartela nella vita e chissà… anche di essere ammesso al tavolo dove siedono gli artisti.
Ci sarebbe dunque da chiedersi: e la riflessione artistica? Lo sguardo sul mondo contemporaneo? E, insomma, l’Arte? Probabilmente Clementi risponderebbe alla stregua di uno Zuckerman e, alzando le mani, esclamerebbe: “Signora, non mi parli dell’Arte!”. D’altronde, si tratta di uno scrittore che proviene da un mondo “minore” come quello della musica rock, dove da anni ricopre il ruolo il “front man” senza aver mai cantato una sola strofa…
Un artista che vuole essere tale per sincera necessità, a cui non resta altro che tirare fuori il massimo dai propri limiti, senza mai bluffare.
Tanta roba! Davvero un piacere leggerlo tutto☺️
Grazie, Charles! Mi fa piacere ti sia piaciuto. Alla prossima!