Domanda: Quale band della scena pop inglese negli anni 2000 si è caratterizzata maggiormente per creatività e fantasia?
Risposta: Ovvio, i Field Music!
Se dovessi motivare la risposta, inviterei semplicemente all’ascolto della miscela pop dei fratelli David e Peter Brewis i cui ingredienti vantano angolosità new wave dal forte sapore XTC con punte di brit pop, incursioni elettroniche e robotiche, funk meticcio e arrangiamenti complessi, ma mai involuti, che riescono ad accostare raffinatezze cameristiche a repentini cambi di tempo di marca progressive (ma potremmo non fermarci qui…). Il tutto, spesso e volentieri, contenuto non tanto nello stesso album, quanto nelle singole canzoni, simili a volte a mini composizioni da tre minuti, intrise di tipica eleganza british.
Aggiungiamo poi che la loro già consistente (per quantità e qualità) discografia propone gusti che possono soddisfare tutti i palati. Qualcuno potrà preferire l’esuberanza giovanile dell’omonimo o la raffinatezza pop di “Tones Of Town”. Gli amanti dell’enciclopedismo saranno saziati dall’abbondanza del doppio “Field Music (Measure)”, mentre gli appassionati del lato più prog troveranno pane per i loro denti nell’intricato “Plumb”. Infine gli ultimi due album “Commontime” e “Open Here” aggiungono al calderone groove funky e dosi di pop sintetico anni ‘80. Come se non bastasse la discografia regolare, i fratelli hanno trovato il tempo di registrare colonne sonore e album di cover e carriere parallele ottime e abbondanti. Basti citare “Frozen By Sight”, tesoro nascosto firmato a quattro mani da Peter Brewis con Paul Smith dei Maximo Park e che non è esagerato considerare uno dei migliori lavori di pop britannico, algido e classicheggiante del nuovo millennio.
Facendo la somma, troviamo tutte le caratteristiche per certificarne lo status di gruppo di culto (al quale naturalmente mi ascrivo) osannato dalla critica.
Insomma, tutto bene quindi? Non del tutto…
Nell’ascoltare i loro dischi, faceva spesso capolino una piccola inquietudine, come una spina nel fianco: una vaga sensazione di incompiutezza che faceva pensare al classico studente che si distingue per la notevole intelligenza, ma al quale si dice “puoi fare di più!”
Ciò che li rendeva delle promesse non del tutto mantenute (mancate sarebbe ingeneroso) sembrava essere la scrittura: quella “sostanza”, che non si può certo definire carente, ma che non sembrava all’altezza (ragguardevole) dell’impeccabile “forma”.
In un certo senso, questa carenza nella scrittura poteva essere di fatto considerata come un’inevitabile conseguenza della strabordante creatività degli autori; il problema infatti non appariva tanto la mancanza di gusto melodico o di ispirazione, quanto la capacità di organizzare al meglio la canzone, utilizzando una tale messe di spunti e di idee.
Mi sono espresso al passato perchè è da poco uscito il nuovo disco “Making a New World” che sembra rappresentare una svolta: non un vero e proprio cambiamento, perché non troviamo novità sostanziali o capovolgimenti di fronte, ma, nonostante ciò, comunque un passo decisivo verso la maturità dei Field Music. Per provare a dimostrare questa affermazione dobbiamo però fare un passo indietro e parlare della particolare genesi del disco.
“Making a New World” nasce infatti come opera su commissione. L’Imperial War Museum chiese ai Brewis di creare uno show che traesse ispirazione da un’immagine molto particolare: la raffigurazione grafica, realizzata tramite un software, dell’ultimo colpo sparato durante la prima guerra mondiale. Partendo da questo momento storico di cesura tra la fine della paura e l’inizio di una nuova speranza, è nato un concept album che, se in origine si è sviluppato in maniera prevalentemente strumentale, è poi diventato – con l’inserimento dei testi – un corpo unico di 19 brani, nei quali come al solito i nostri riescono a infilare tutte le loro da passioni, dai Talking Heads agli Steely Dan (oltre ovviamente a tutte quelle menzionate in precedenza). Qualcuno avrebbe potuto storcere il naso di fronte alla notizia che un gruppo strabordante di suo come i Field Music si misurasse con un concept album, termine altisonante, che evoca immediatamente la pomposità e le esagerazioni dell’epoca progressive e probabilmente gli avrebbe suggerito una strada che puntasse verso la semplificazione piuttosto che verso l’ambizione.
I Field Music però sono una band differente, in qualche modo unica. Per loro, quindi, una semplificazione avrebbe rischiato di diventare una “normalizzazione” ovvero un attentato alla propria stessa identità.
L’impressione è quindi che i Brewis abbiano lavorato in maniera opposta: più che farsi limitare dai paletti che la composizione di un concept album impone, hanno utilizzato l’idea forte alla base del progetto come involucro ideale per dare coerenza e per “contenere” le proprie idee strabordanti. La struttura coesa della suite divisa in 19 sezioni ha permesso loro poi, di rinunciare alla componente della canzone pop, senza privarsi né di melodie ficcanti, né dei loro tipici spunti strumentali e acrobatici, evitando allo stesso tempo di incorrere nei limiti di scrittura (intesa come organizzazione degli elementi all’interno del formato canzone) dei quali si è parlato prima. La vera novità è quindi la struttura a mosaico del lavoro che si apprezza davvero immergendosi nel flusso e non concentrandosi sui singoli episodi.
Di fatto due mosse di dinamica simile, ma opposte: frammentare la scrittura e diluire il virtuosismo degli arrangiamenti in 42 minuti invece che in tre. Ciò ha permesso loro da un lato di ottenere una sintesi efficace delle loro capacità, dall’altro di nascondere i propri difetti. Il risultato è quasi un ossimoro: una suite di 42 minuti decisamente progressiva nell’ispirazione, che diventa una delle opere più godibili della band inglese. La linearità ottenuta attraverso l’ambizione.
Per questa ragione appare superfluo e quasi un torto nei confronti di un lavoro così equilibrato, scorrere in rassegna i “pezzi” (termine mai azzeccato come in questo caso…). Piuttosto mi pare opportuno citare quei frammenti che nella loro brevità risaltano all’interno del flusso, forse proprio perchè non viene richiesto “loro” di diventare canzoni e di strutturarsi come tali. In particolare sembrano beneficiarne maggiormente i momenti più quieti come la dolcissima oasi Beach Boysiana di “A Change Of Heir” oppure “Nikon Pt. 1” dove una raffinata melodia poggia su un base quasi prog, costruita su un basso alla Gentle Giant e un sublime arpeggio di chitarra.
Va sottolineato infine un altro elemento. Da parecchi anni i Brewis si occupavano interamente della scrittura, produzione e realizzazione degli album, suonando autarchicamente la maggior parte degli strumenti. Per questo nuovo lavoro, si sono avvalsi del contributo della band che li ha accompagnati lungo il tour del precedente disco“Open Here”. La presenza di un gruppo rodato sembra dunque aver permesso ai due fratelli di concentrarsi maggiormente sulla “regia” di un lavoro così complesso, che ad esempio si fa notare nell’attenzione che viene riservata alla tessitura tra i vari frammenti, costituita da transizioni vellutate e mai forzate, che donano all’opera fluidità e omogeneità.
Il risultato finale sembra dunque rappresentare se non il disco della maturità, quello più importante e decisivo nella carriera della band. Al di là della notevole portata culturale e dell’ambizione del disco, l’impressione infatti è quella di avere tra le mani un lavoro in cui gli autori sono finalmente giunti alla piena consapevolezza dei propri mezzi. Consapevolezza necessaria per portare a termine quelle (poche) promesse che ancora gli restano da mantenere.
Basta che poi non diventino una band “normale”…
[/fusion_text][/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]
Dicci cosa ne pensi