Sabato 9 novembre al Black Inside di Lonate Ceppino, è andata in scena la penultima data del tour dei Caminanti e del loro capo banda Cesare Basile.
Tocca parlarne perché il loro concerto è stato uno degli spettacoli migliori cui mi è capitato di assistere negli ultimi tempi.
La formula la conoscete, se siete stati abbastanza saggi da ascoltare il nuovo disco “Cummeddia”. Lavoro che dal vivo viene riproposto interamente, con una scelta apprezzabile che dona allo spettacolo omogeneità e coesione (ai brani del nuovo lavoro vengono aggiunti giusto l’invettiva anti-salviniana di “Capitano”, i due brani dell’ep “Ntra Mennula e Aranci” e l’omaggio ad Orazio Strano che apriva il disco del 2015 “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più”).
Il concerto conferma come il desert blues a bagno nel folk più viscerale del cantautore siciliano trovi la sua dimensione migliore proprio nella resa live, mentre a rendere giustizia all’eccellente lavoro di produzione presente nel disco provvede il riuscitissimo connubio tra corde, pelli, synth e i modulatori che processano dal vivo voci e strumenti.
Badate bene, però: non si è trattato del concerto di un cantautore accompagnato dalla sua backing band, quanto piuttosto del lavoro di un vero e proprio gruppo, composto da un manipolo di musicisti che incidono, individualmente e collettivamente, nel tessuto musicale di ogni singolo brano. Una formazione coesa, bella da vedere e da sentire, impreziosita inoltre dalla presenza scenica, il talento e la grazia delle tre donne presenti sul palco. Un elemento femminino capace di arricchire il “folk universale” della band con sfumature ora sognanti, ora caratterizzate da sapori terrigni e venature inquietanti, specie quando vengono evocate ancestrali pulsazioni.
I ritmi che Massimo Ferrarotto tira fuori dal suo scheletrico drum kit gettano un ponte tra la Sicilia e l’Africa, intercettando – nel cammino – il respiro primario di Madre Terra.
Sara Ardizzoni è una sfinge raffinata che colpisce, oltre che per la formidabile tecnica chitarristica, per uno straordinario senso della misura nel tocco e nelle timbriche.
Vera Di Lecce costituisce uno spettacolo nello spettacolo, grazie a una presenza scenica intensa e teatrale e alla capacità vulcanica di tirare fuori, dal cilindro della sua ugola, sussurri suadenti, vocalizzi ariosi e urla memori della lezione di Yoko Ono, manipolando poi il tutto con effetti digitali e analogici.
Non le è da meno Alice Ferrara che, più nascosta alle spalle del cantante, si produce in un lavoro straordinario ai cori, alle percussioni e ai sintetizzatori.
Poi ci sarebbe Cesare Basile di cui vi ho ampiamente parlato QUI e che, al di là della scrittura dei brani, aggiunge alla dimensione live della sua musica uno sguardo di austera sincerità e genuino impegno, oltre ovviamente a una vocalità mai così espressiva, enfatizzata com’è dal controcanto offerto dalle due voci femminili, che definire “coriste” sarebbe riduttivo e del tutto fuori luogo.
Al di là degli spazi riservati all’improvvisazione, ben distribuiti tra le pieghe della scaletta, si ha l’impressione che la band suoni con quel particolare trasporto che, affidandosi ai vuoti e ai pieni dei vortici strumentali, consente di creare ogni sera uno spettacolo diverso. Una band entusiasta della musica che porta in giro e che, nel metterla in scena, si prende i suoi rischi, lanciandosi in incastri e giochi acrobatici che prevedono il salto nel vuoto, ma che hanno come ricompensa la gioia del rientro perfetto.
Un momento di grazia, quello di Cesare e dei suoi compagni di strada, percepibile nell’intensità delle esecuzioni, nelle interazioni tra gli stessi musicisti (sopra e fuori dal palco), nonché nella scelta dei luoghi in cui suonare che ha evitato sia i circuiti mainstream che quelli alternativi più blasonati, in favore di situazioni autogestite e libertarie, perfettamente in linea con le idee che Basile professa da tempo (da questo punto di vista, va riconosciuto l’ulteriore merito di accendere i riflettori su realtà locali come il “Black Inside” che magari non hanno tantissime occasioni di aumentare il proprio bacino di utenza, a dispetto dell’atmosfera libera e familiare che solo certi locali che nascono “dal basso” riescono ad avere).
“Cummeddia” ha rappresentato per il proprio autore un lavoro certamente importante e non stupisce dunque la cura profusa nella sua resa live, quasi fosse un’ulteriore riprova della grandezza del lavoro.
Il capobanda può dunque essere contento di quanto realizzato.
La vita randagia dei musicisti non trova altra moneta per ripagarsi che il circolo virtuoso ed emotivo che si genera tra artista e spettatore e che abbatte ogni inutile barriera, in una celebrazione del qui ed ora che sa di strada, di vita reale, di gente e di tutti gli archetipi che altro non sono che la materia di cui è fatta la musica folk.
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