Avvertenza: Come capita a certi cantastorie che si misurano con materiali, vicende e sentimenti senza tempo, anche Cesare Basile è diventato una figura sfumata di cui si dicono tante cose e a cui si attribuiscono molti pensieri. Come fosse un Robert Johnson o un Orazio Strano, un rispettoso velo sembra avvolgere il cantautore siciliano, al punto che l’artista sembra cominciare a vivere una vita autonoma rispetto all’uomo. Questo articolo non ha alcuna intenzione di invertire tale tendenza. Nessuna pretesa di oggettività, dunque: il Cesare Basile di cui si parlerà è solo uno dei tanti Cesare Basile che ci piace immaginare nella nostra ricerca di artisti puri che siano di sollievo per la nostra vita compromessa. Il Cesare Basile di questo articolo credo abbia poco o (speriamo) nulla a che fare con l’uomo reale. Perché, quando si tratta di folk e di blues, è sempre meglio far prevalere alla realtà delle cose il mito e la leggenda.
CATANIA (TAKE ONE).
A volte si ha la confusa sensazione che si è giunti a un punto di svolta e che si stia vivendo uno di quei momenti capaci di costituire uno spartiacque. A partire dal quale il passato è alle spalle, mentre il futuro si presenta come nuovo e senza zavorre. Il foglio è bianco e ben stirato apposta per te e per tutti quelli che questa vibrazione al rinnovamento sapranno percepirla. C’è da dire che il più delle volte si tratta di un falso movimento prospettico. Un errore di prospettiva che coglie ogni generazione, perché è l’età a provocare l’illusione del rinnovamento. Tutti i giovani pensano che il futuro davanti a loro si stia dispiegando ricco di possibilità. Ed è l’eccitazione che ne deriva la benzina che ha consentito a molte delle vicende che più amiamo di andare avanti.
Cesare Basile, che è nato a Catania il 7 febbraio del 1964, nel 1987 ha 23 anni. Ed è giovane e pieno di voglia di fare. Qualche anno prima ha assistito a un concerto di una band punk chiamata The Skulls ed ha sentito la più classica delle chiamate alle armi: vedere il cantante della formazione urlare a squarciagola e dimenarsi come un ossesso sul palco gli ha fatto capire che quella roba vuole farla pure lui. La solita storia, dunque: un ragazzino e l’eccitazione nell’assistere a qualcosa di selvaggio e libero, il desiderio di emulazione, la voglia bruciante di farlo, adesso !ee subito. Per realizzare il desiderio, nel 1985, ha messo su una band (che altro?). Si chiama Candida Lilith. Lui ne è il cantante e chitarrista e accanto a lui ci sono Stefano Biscottino (chitarre), Mimmo Scuderi (basso), Jeff Scalia (batteria), Gaetano D’Angelo (sax) e Vito Porto (tastiere). In realtà, Cesare ha già in curriculum una prima esperienza con gli Stilba (band in cui militava anche il futuro Quartered Shadows Tommaso Marletta), ma è con i Candida che le cose cominciano a farsi serie. Nel 1986 la band ha partecipato con il brano “Il Gatto di Isa” alla compilation 095 Codice interattivo prodotta da Rock 86 (storico negozio di dischi della città) che raccoglie alcune band della scena cittadina come Boppin’ Kids e Caftua. Le coordinate sono quelle in voga in quegli anni: intro marziale alla Ultravox, ritmica funk wave, atmosfere plumbee e post punk, voce singhiozzante e un po’ baritona, tastiere nelle strofe e chitarre affilate e prive di cliché rock-blues. Nello stesso anno si esibiscono in playback per una piccola emittente locale con il brano “Piccola ragazza Pierrot”. I ragazzi dapprima rifiutano orgogliosamente di cantare in playback, poi acconsentono, ma decidono di giocarsela come fossero al CBGB’s: Cesare, stivaletti di pelle su pantaloni viola e camicia nera, sembra un giovane Christopher Walken che si dimena come al cantante degli Skulls non sarebbe mai riuscito:
Il 1986 è anche l’anno di una intensa attività live che li porta poi, nel marzo dell’87, a un breve tour tedesco che tocca anche la capitale Berlino, città che rivestirà un importante ruolo nel proseguo della storia. Ma il 1987 è anche l’anno in cui la band registra l’omonimo disco pubblicato dalla Indigena Records. Si tratta di un mini di sei canzoni su cui spiccano una grintosa interpretazione rock del classico battistiano “29 Settembre” e l’autografa “Dentro il fuoco”. Cesare nel frattempo ha un po’ affinato lo stile: singhiozza meno e, se ancora si ravvisano ingenuità d’espressione nel modulare le vocali, ha cominciato a cantare in maniera più distesa ed energica. Più rock in senso classico, se vogliamo. D’altronde, dal suo orizzonte la new wave sta per essere messa da parte, così come i Candida Lilith, a dire il vero: l’anno successivo prende e se ne va, lascia Catania e si trasferisce a Roma per unirsi a una delle band più dinamitarde del momento. Gente che ti fa esplodere il vinile in faccia e che dal vivo ti prende per il collo. Si tratta dei Kim Squad.
ROMA.
Chi c’era ci ha lasciato il cuore su quella scena e quegli anni… gli altri possono solo provare a capire come quella musica, che pescava dagli anni sessanta più oscuri e meno celebrati, possa aver fatto nascere un culto così radicale e radicato che ancora oggi gli occhi di qualcuno si inumidiscono al ricordo. Il revival del garage rock degli anni ’80 fu una bomba che mostrò a tutti di cosa si parlava veramente, quando si parlava di rock n’ roll. Prima ancora del grunge, ma con meno vigore mediatico, quella scena obbligò molti a tornare a misurare il rock in litri di sudore, felici di venire assordati da decibel dall’intensità sconveniente. In Italia ci fu un notevole fiorire di band che si rifacevano ora alla componente più ruvida del garage, ora a quella più psichedelica. Cesare annusa l’aria. In giro band come Sick Rose, Not Moving, Funhouse si impongono con la loro miscela che suona non solo più punk della wave che ha finora bazzicato, ma più punk dello stesso punk dei tipi con le creste! Ma soprattutto si tratta di musica imbevuta di un elemento che finora non aveva mai scorto: il blues. Tra quei solchi, il blues non è quel vecchiume con cui chitarristi più o meno virtuosi ammorbano il rock n’ roll tramite i loro lunghi assoli, ma una vibrazione scura che impregna una musica che colpisce come vetriolo, grezzo e urticante. Cesare vuole imparare e allora ricorda la lezione del nonno barbiere che – come molti barbieri siciliani – suonava uno strumento e si ritrovava al sabato dopo il lavoro a suonare con gli altri barbieri della città. Il suo strumento era il violino e il consiglio che gli aveva dato era: “Impara a rubare. Guarda come suonano gli altri, perché nessuno ti può insegnare a suonare. Devi guardare le mani e riprodurre quello che fanno gli altri”. Così Cesare si unisce ai Kim Squad, band che nel 1987 aveva pubblicato come Kim Squad and Dinah Shore Zeekapers il cult records “Young Bastards”. L’Album era stato prodotto da Oderso Rubini e pubblicato dalla Virgin, una major che, se da un lato non aveva poi supportato più di tanto una band che avrebbe meritato invece di giocarsela a livello internazionale, le permise comunque di uscire dai territori nazionali e collezionare una serie di date anche all’estero. Cesare si unisce pertanto ai Filibustieri (Zeekapers in olandese…) e parte in tour con la combriccola guidata dal cantante Francois-Regis Cambuzat (francese trapiantato a Roma, figura mitica, istrionica e maledetta che meriterebbe una trattazione a parte…) e dalla chitarra incendiaria di Giorgio Curcetti. Insieme girano in lungo e largo per tutto un anno vissuto pericolosamente, tra Roma e l’Europa tutta. La band ha una solidità impressionante, una macchina da guerra il cui organico viene completato dal basso di Elena Palmieri, le tastiere di Roberta Possamai e la batteria di Angelo Pinna. Quando la sua strada si divide da quella della band, Cesare ha maturato un bagaglio di cui è assolutamente soddisfatto: il nonno sarebbe contento di quel che ha imparato. Ma non è tempo di adagiarsi sugli allori: ha in mente un altro progetto. Si chiameranno Quartared Shadows: ci saranno due donne in organico come negli Squad, la chitarra sarà incendiaria come negli Squad, ma la musica sarà una cosa diversa. Cesare ha un progetto in mente, ma per realizzarlo deve rientrare a Catania.
DA CATANIA (TAKE TWO) A BERLINO.
Per dare vita ai Quartered Shadows, Cesare dunque rientra a Catania e mette assieme la nuova band, arruolando Tommaso Marletta alla chitarra, Domenico Scuderi al basso, Arianna Platania alla batteria e Sonia Brex alle tastiere. Con questa formazione si autoproducono una cassetta di cinque brani dal titolo omonimo, per poi dare alle stampe nel 1990 un 12’’ edito da Indigena Record per la Crazy Mannequin di Milano. Per questa registrazione, la band si concede il vezzo di utilizzare nomi stranieri per designare i suoi componenti e così Cesare diventa Vic J. Spinne, al basso troviamo Dom Swindle, alla batteria Mardou Angel, alla chitarra Tommaso Marletta diventa T. Fly, mentre Sonia Brex alle tastiere mantiene il proprio pseudonimo. Il nuovo progetto di Cesare non resta però confinato nella città di Catania, ma prende un respiro più ampio, europeo. Cesare comincia ad avere le palle piene di Catania. Ha bisogno di liberarsene. Già una volta ha provato a lasciarsela alle spalle, ma non era ancora pronto al distacco: occorreva che a far da volano alla separazione ci fosse qualcosa di suo e nei Kim Squad lui era solo un apprendista rock n’ roll. Adesso alla testa dei Quartered Shadows può andare a giocarsela là dove le cose succedono davvero. La città prescelta è Berlino: bazzicata già ai tempi dei Candida Lilith, sembra la meta ideale per il giovane Vic J. Spinne che nell’estate dell’89 sposa Jana in una cornice che sa di libertà ed eccitazione. Il muro è caduto da poco, i costi sono precipitati e non ci si crede che tutto quel ben di dio di vita ed esperienza sia lì pronto a disposizione di chi ha le palle di partire e andarselo a prendere. Ci risiamo: ecco uno di quei momenti che fanno da spartiacque. Questa volta, però, Cesare non arriverà in ritardo come è stato per il punk. Punta piuttosto l’occhio del ciclone, il centro nevralgico dell’Europa. Come un Nick Cave siciliano porta le sue poesie nella città tedesca e prova a metterle in musica. In città con i compagni, è stato facile occupare un appartamento dismesso nella parte est della città e confondersi tra la comunità locale, un melting pop giovanile che parla tante lingue e suona molte musiche. I Quartered Shadows si mischiano nella notte berlinese e in cambio ne ottengono una profondità di esperienza che dona alla loro musica i connotati art-rock e decadenti di cui sono in cerca. Ne guadagnano in personalità e competenza. L’omonimo lavoro del 1990 in copertina paga il debito alla città tedesca con la dedica a “Bea, Jana and all friends from East Berlin” e si caratterizza da subito per un mood oscuro e malato, ma allo stesso tempo ricercato. “La casa di Valeria” mischia arpeggi acustici e rumori concreti, “Macchie vive” è una lunga lobotomia per chitarra slide, batterie reverberate e svolazzi di clarinetto (a cura dell’ospite Francesco Prota) impreziosita da un finale in cui le chitarre si uniscono come un torrente tumultuoso. Unica pecca: Cesare tende a recitare un po’ troppo il testo che peraltro appare piuttosto ingenuo e di maniera. Il cantante però si rifà nella splendida cover di “The Thief” dei Can (altezza early recording con Malcolm Mooney ancora alla voce): la band si produce in una versione tesa e notturna, dilatata e resa intensa proprio da un’interpretazione vocale che si guadagna la scena:
Completano l’eccellente lavoro “Ogni volta ogni giorno” che, così come “Il funambolo”, anticipa gran parte del rock anni ’90 che verrà (e non solo in Italia) e il commiato affidato all’art rock decadente di “Zab”, dove torna il clarinetto di Francesco Prota che si suona da solo un motivetto infantile per poi prodursi in un fraseggio disinvolto, non appena la band entra in scena, tumultuosa e dissonante, fino a un finale in cui il vinile va in loop, reiterando all’infinito il medesimo monolitico riff di clarinetto, batteria e chitarra.
Adesso che Cesare ha un lavoro degno di nota da far girare non ha alcuna intenzione di mollare il colpo. Tutti devono conoscere la sua musica e quando dice “tutti” non sta parlando di Catania o di Berlino, ma di tutta l’Europa. Occorre suonare in giro, ovunque e tanto. La vita sul palco porta esperienza e affina le capacità della band, il cui nocciolo duro si è consolidato attorno alla doppia coppia costituita da Cesare e Tommaso e da Sonia e Arianna. Gli capita persino di suonare come opening band per i Nirvana pre-boom, ma già impegnati nella promozione di “Nevermind”. L’episodio verrà a lungo mitizzato e ancora oggi fa sorridere Cesare, che per anni ha avvertito alle sue spalle sguardi di ammirazione da parte di chi, indicandolo di nascosto al suo passaggio, mormorava al vicino: “Oh, guarda che quello ha aperto per i Nirvana a Berlino!”. Al di là del mito, in effetti, il 10 novembre del 1991, la band di Kurt Cobain si trova senza gruppo spalla, data l’indisponibilità dei supporter Urge Overkill, e così al Loft Im Metropol di Schöneberg decidono di chiamare i nostri che da tempo ben impressionavano sui palchi berlinesi. La band non si fa affatto intimidire in termini di potenza rock e affronta il palco a testa bassa: da un po’ il suono si è fatto più impetuoso e l’art-rock presente nel 12’’ del 1990 ha lasciato il posto a un rock roccioso, memore sia della lezione del quasi coevo Aussie Rock, sia del rock alternativo americano a metà tra paisley underground e scena di Minneapolis. La vita berlinese, spesa tra locali e prove, ha avuto come conseguenza il passaggio al cantato in inglese: la mossa va in controtendenza rispetto a quanto sta avvenendo in Italia, ma d’altronde l’orizzonte di Cesare in questo momento è tutto rivolto fuori dai confini patrii e la sua musica non può che parlare la lingua delle sue ambizioni. Il nuovo sound finisce per essere perfettamente fotografato in “The last floor beach” pubblicato nel 1993 dalla AV Arts e prodotto da Marc De Reus, bassista degli olandesi De Div, che già da un po’ si stava facendo notare come produttore. La formazione subisce alcuni cambiamenti con l’ingresso di Eva al basso e Christoph Schneider dei Rammstein alla batteria. Il disco segna dunque un netto stacco rispetto alle atmosfere decadenti e impregnate di una Berlino come fotografata in quegli anni da Wim Wenders in favore di uno spirito quasi hard rock che emerge fin dalla opening track “Spray love”, dove non vi è traccia di noise, atmosfere morbose e suoni slabbrati. Le chitarre di Marletta lambiscono ora scansioni quasi metalliche e si producono in assoli dalla tecnica invidiabile, ma più in generale il suono si è fatto compatto e definito, supportato da una batteria quadrata e rocciosa. Per la cronaca si fanno notare le chitarre arrembanti di “The belly of a disease”, l’incalzante punk rock di “Pride”, una “Russian Lullaby” che non cerca l’impatto, ma l’accumulo dell’intensità, la coda di “R & B Angel” con l’interplay tra il piano di Sonia Brex e la chitarra di Marletta memore delle lobotomie noise della sua vita precedente, l’oasi di pace dell’acustica “Silly day”, la cover marziale della morriconiana “Sicilian Clan” (dall’omonimo film di Henri Verneuil) e infine “Io non ho più amore” con Cesare che torna a cantare in italiano una bella melodia punk che non avrebbe sfigurato tra i dischi dei concittadini Flor de Mal o come episodio acustico in uno dei Negazione. Un brano che letteralmente ti trascina via al punto da far pensare che ad avere sbagliato lingua sia il resto della scaletta.
I ragazzi consegnano dunque alle stampe un lavoro discreto e più o meno allineato ai suoni del momento e allo spirito che si respirava in quegli anni, ma la sensazione è che la rinuncia alle sfumature più notturne abbia fatto perdere fascino alla formula della band. Forse, più in generale, la magia e l’eccitazione stanno scemando. La band comincia a lavorare al terzo disco, ma Cesare molla tutto e torna a casa. Capisce che, dopo cinque anni, il suo periodo berlinese è finito. Capisce anche che ad essere terminata è anche la sua esperienza come cantante di una band.
CATANIA AGAIN (TAKE THREE).
“Questi anni… nessuno da ringraziare”. La frase riportata all’interno della confezione digipack del primo disco solista di Cesare sembra una lapidaria cesura con il passato. Una frase che prende atto del tempo trascorso e del valore di quegli anni importanti, che hanno portato a Cesare un tesoretto guadagnato con fatica e sudore e per il quale sente di non dover ringraziare nessuno, se non la sua personale caparbietà. “La pelle” viene registrato a Catania nell’estate del 1994, Cesare ha da poco compiuto 30 anni e comincia a fare i primi bilanci, di vita e di carriera. Se è chiaro che una fase della sua vita si è definitivamente chiusa, adesso bisogna adoperarsi affinché la nuova prenda forma. La più classica fase di transizione per un uomo che si definisce fin da subito “Un uomo in transito”. Rientrare a Catania si rivela a quel punto una tappa necessaria e così importante da meritare le prime frasi del disco: “Qui la pelle sa di mare e meduse/ stai bene attento a dove appoggi la lingua/ oppure impazzirai nel sole”. Un disco introspettivo e tutto ripiegato in se stesso in cui però la dimensione collettiva della città che lo ha riaccolto svolge il ruolo importante di rassicurante grembo. Cesare mette in scena il bilancio necessario per la ripartenza e lo fa with a little help from his friends, ovvero gli amici della scena musicale della sua città. Quella Catania che sta vivendo un momento di grande vivacità musicale: dopo i pionieri De Novo, è tutto un proliferare di band eccellenti, come ad esempio i Flor de Mal, alcune capaci di giocarsela davvero a livello internazionale come gli art-noiser Uzeda. Sono gli anni di Francesco Virlinzi e della Cyclope Records, dei R.E.M. del tour di “Monster” che scelgono il capoluogo catanese come principale tappa italiana, di Catania come “Seattle d’Italia”. In quel grembo, Cesare comincia a fare due conti. Del suo passato cerca di tenere le parti meno compromesse e così invita Marc De Reus in Sicilia a produrre il disco e il vecchio compagno di armi Tommaso Marletta a mettere le sue chitarre in tre brani. Sonia ha preferito rimanere a Berlino e avviare una carriera di chanteuse elettronica. I nuovi amici catanesi sono la coppia artistica e nella vita formata da Agostino Tilotta e Giovanna Cacciola, rispettivamente chitarra e voce degli Uzeda e Puccio Castrogiovanni e Roberto Fuzio dei Lautari. Ma, al di là degli ospiti, il nocciolo della sua nuova band è costituito musicisti indigeni come Massimo Ferrarotto alla batteria e da Vito Porto che, già compagno d’avventure nei Candida Lilith, si piazza alle tastiere e alla fisarmonica. E’ proprio la fisarmonica di Porto, assieme al violino di Gaetano Messina, a fare da filo conduttore tra i vari brani, arricchendoli di un sapore mediterraneo e cantautoriale. Cesare non rinuncia al rock, ma vuole provare altre strade: come ad esempio quella tracciata da brani come “Useless Hate” e “La Gloria arriva”, dove le chitarre dell’ospite Agostino Tilotta si affiancano all’interplay di viola e fisarmonica, creando colori desueti. Cesare cerca una nuova personalità che però, più che nella commistione tra ritmi tarantellati e chitarre elettriche della pur notevole “Circo d’ombre”, risulta maggiormente a fuoco nei brani più smaccatamente cantautoriali come l’introspettiva “Un uomo in transito”, la sospesa “Teresa dei piccoli fiori” e soprattutto i due minuti e ventisei secondi di “Fari”. Una ballata per fisarmonica, chitarra e viola capace di evocare l’incanto e il senso di perdita suggeriti dai fari notturni che ti scorrono accanto veloci.
Resta da segnalare il primo brano scritto in siciliano ovvero “Haiku di Sicilia” che passa dal rock acustico a una coda dal sapore etnico e la canzone che, citando Curzio Malaparte, intitola il disco, concludendolo con un finale sospeso e minaccioso (Io ci spero che verrà/ col fuoco a chiederci se siamo vivi o se stiamo scherzando / Voglio che le vostre idee di pace vengano allo scoperto come pii massacri / Io ci spero che verrà a farvi uscire e chiedere salvezza a Dio che ha altro da fare).
Inquietudini che poi sono quelle di Cesare che intorno a sé vede letteralmente ribollire la scena underground italiana. Tornare in Italia è stata la mossa giusta: un modo per non mancare all’appuntamento e farsi trovare al posto giusto nel momento giusto. Da lì a poco esploderà la stagione del Nuovo! Rock! Italiano!, portando band come Afterhours, Marlene Kuntz, Massimo Volume ed Estra a condurre verso masse consistenti di pubblico lo stesso rock d’autore che Cesare bazzica da quella che gli sembra ormai una vita. Nel 1994 si percepisce che l’onda si sta ingrossando. Il disco di Cesare viene pubblicato dalla piccola indipendente Lollypop Records e convince la critica, ma chiaramente non sposta grossi numeri. Cesare non demorde, si getta a capofitto nella scrittura e nelle possibili declinazioni che il suo cantautorato può assumere. Sì, perché ormai ha capito chi è: un cantautore. Occorre solo capire di che genere. Il nuovo materiale va a confluire in quello che avrebbe dovuto essere il secondo disco solista intitolato “Non fate polvere”. Purtroppo l’opera non trova finanziamenti. Le etichette non sembrano interessate al suo cantautorato. Seguono anni difficili passati a guardare le altre band della scena conquistare la ribalta. Sente di non avere nulla da invidiare ai colleghi a livello di scrittura e di vissuto. Se il mondo va verso il rock d’autore, teso e ombroso, beh, lui quella roba la suona da una vita.
Matura allora la decisione di scrivere un lavoro capace di “arrivare”, recuperando la dimensione più elettrica della sua musica e sacrificando gli aromi etnici de “La pelle”. Nel 1998, dopo quattro lunghi anni, finalmente Cesare entra nelle grazie della Black Out, ovvero una delle etichette principali della nuova musica italiana, avendo pubblicato lavori di artisti come Africa Unite, Casino Royale, C.S.I., Neffa, Ritmo Tribale e Verdena. La Black Out si fa dunque avanti per pubblicare l’atteso secondo disco che però adesso si chiama “Stereoscope” (titolo che sostituisce all’ultimo “Pop Oral Patriots”). Il disco rappresenta una grande occasione per Cesare se consideriamo anche la distribuzione a cura di una major come la Polygram. Il lavoro viene prodotto dallo stesso Basile che però chiama accanto a sé Toni Carbone dei seminali Denovo. La nuova band che accompagna il cantante vede Angelo Molino ingaggiare duelli chitarristici con la sei corde di Cesare, mentre al basso e alla batteria vanno rispettivamente Umberto Ursino e Marcello Sorge. Vito Porto, che si occupa anche del missaggio assieme ai due produttori, contribuisce con i suoi tasti qua e là.
Mai finora Cesare era stato così diretto e immediato. Il disco vuole arrivare, non c’è dubbio. Basti considerare il tris d’assi che viene calato in apertura: l’inno rock “Incendiami la vita” (Solo la mia vanità ci ha portati fino a qui/ Fino al punto di svegliarmi ogni mattina e fare i conti con il mio spettacolo”), il midtempo “Mayday”, dove la dinamica forte/piano tipica degli anni novanta, viene usata per passare da una strofa amara ed evocativa a un ritornello liberatorio (Quando questa città di pupi ingravida-balconi si fa cogliere oscena, mentre mima il suo spettacolo d’identità. E il mare è blu e cigola, Il mare cigola mayday), la poesia abbagliante e la melodia struggente di “Di Maggio” (Di maggio ho un suono in gola che viene su a fiotti d’aria e sa di birra tiepida alle tre, di un pomeriggio di domenica (…) Di maggio lei frantumerà quei vasi contro il muro e poi, sputando all’ombra che mi porto in giro per la stanza, se ne andrà).
Il resto della scaletta segue le coordinate di un rock chitarristico ed elegante, con la voce di Cesare – maturata sempre più a livello di espressione e intensità – che viene spesso accompagnata dai controcanti femminili di Marta Collica, che rimandano a certe pagine noir di Nick Cave o di Leonard Cohen. Gli episodi di rock incalzante hanno lasciato il posto a una gestione perfetta dei vuoti e dei pieni (come nel quarto brano “Diecimila anni”) e ad un umore rilassato e consapevole: la musica si distende per accogliere le riflessioni e le liriche del suo autore, ma senza perdere in piacevolezza e scorrevolezza, anzi cercando di veicolare al meglio il “messaggio”. E così, oltre ai titoli già citati, il lavoro si fa ricordare per l’intreccio di chitarre che si avviluppa attorno alla strofa sinuosa di “Stereoscope”, per la poesia bella da togliere il fiato di “Come neve sui teneri” (Ogni volta che la grazia mi ha sparato in faccia, avevo gli occhi chiusi/ Così oggi non darmi in pasto alle tue certezze karmiche), che si avvale anche della voce di Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus (ospite del disco, così come Massimiliano Sapienza dei White Tornado nel brano che dà il titolo al disco), per una “Dove finisce l’isola”, dove si canta una donna come fosse la Sicilia, o forse il contrario e per la misuratissima e per questo fragile bellezza di “Sul vetro”, che mostra quanto sia cresciuto Cesare sia come compositore che come arrangiatore. Menzione a parte meritano episodi come “Dai tuoi nomi”, “Senza resistenza” e “Natale”, dove fanno capolino batterie trattate, chitarre psichedeliche, un cantato sommesso e sussurrato, che in generale presentano un suono saturo e atmosfere gassose e ottundenti. Tutti semi che germoglieranno nel lavoro successivo.
All’epoca considerato un passo indietro da parte di una critica che gli rimproverò una presunta svolta pop e di aver abiurato rispetto al più colto cantautorato di “La Pelle”, “Stereoscope” appare oggi come un disco ingiustamente sottovalutato e per questo quasi dimenticato. Se forse non regge il paragone con i capolavori che da lì a poco seguiranno, rimane comunque un ascolto notevole che, oltre a concludere un’importante fase di transizione, rappresenta un lavoro capace di incarnare lo stato dell’arte del rock chitarristico italiano degli anni novanta.
IL BLUES COME CATEGORIA DELL’ANIMA.
Facciamo un piccolo balzo in avanti e andiamo al biennio 2010-2011. Periodo nel quale qualche fortunato potrebbe avere intercettato una delle serate del progetto live “Songs with strangers” (al vostro cronista capitò la data di Ravenna al Teatro Rasi). In quelle serate era possibile vedere riuniti sullo stesso palco glorie italiane come Manuel Agnelli, Rodrigo D’Erasmo, Giorgia Poli e Marta Collica e straniere del calibro di Steve Wynn e Stef Kamil Karlens. Il padrone di casa o, se volete il capobanda, era proprio il nostro Cesare che, oltre ai musicisti appena elencati, si teneva ben stretti vicino a sé i due artisti che più avevano fatto per la sua musica nel decennio appena trascorso: Hugo Race a John Parish.
Dal vivo Hugo Race è un animale strano. Ha uno sguardo magnetico e delle movenze ferine. Quando comincia a cantare poi, non puoi fare a meno di notare la differenza rispetto a tutto quello che lo ha preceduto. Sembra appartenere a una categoria altra e danzare con austera eleganza sulla medesima corda del vecchio compagno di scorribande Nick Cave. E se scomodiamo il nome del leader dei Bad Seeds non è tanto perché, quando si parla di Hugo Race, sembra impossibile non citare i suoi inizi come chitarrista nella primissima formazione dei Semi Marci, ma perché i due sembrano gemelli nati dalla stessa partenogenesi: quella rappresentata dalla scena australiana degli anni ’80 che scopriva come, per restituire la purezza perduta al blues americano, occorreva trucidarlo con il clangore affilato del post punk più isterico. Cesare conosce Hugo fin dal suo periodo berlinese, quando il muro era caduto da poco e i Quartered Shadows battevano i palchi della città. Adesso entrambi hanno trovato rifugio nel morbido grembo catanese e continuano a cercare la stessa cosa: trovare una propria via al blues. Una corda che Cesare sente vibrare sempre con maggiore insistenza dentro di sé. Certo, sa che troppe persone si sono già confrontate con questa bestia, finendo poi per tradirne lo spirito con traduzioni imbarazzanti. Perché il blues è una categoria dell’anima e non certo una serie di lick da copiare in lunghe jam chitarristiche. Il blues è autenticità e visceralità e, per non tradirne lo spirito, c’è una sola cosa da fare: trovare una propria strada. Una modalità propria per mettere in musica quella che alla fine è una predisposizione d’animo, un veicolo di sentimenti, speranze e riflessioni.
Assieme a Hugo cercherà di illustrare una propria ipotesi di blues e, in questa maniera, troverà il suo primo capolavoro.
Quando nel 2001 cominciano le registrazioni del nuovo disco “Closet meraviglia”, il musicista catanese ha molte idee in testa. Ai consueti riferimenti musicali che vanno dai songwriter non ortodossi come Nick Cave e Tom Waits a quelli senza tempo come Leonard Cohen, si sono aggiunte band come gli eleganti Tindersticks, i cinematici Portishead e il bad boy Tricky. Portishead e Tricky in particolare colpiscono Cesare per la maniera in cui riescono ad agguantare il nocciolo duro del blues e piegarlo ora a sceneggiature noir e retrò, ora a tensioni non risolte e post-moderne. Le session si svolgono sotto l’orecchio vigile di Hugo che co-produrrà assieme allo stesso Basile l’album.
Ad accompagnarlo in questa nuovo lavoro, vengono confermati Marcello Sorge alla batteria e Umberto Ursino al basso, mentre le chitarre, oltre alle mani del leader, vengono affidate a quelle di Lorenzo Corti e Marcello Caudullo. A impreziosire il tutto ci pensano le orchestrazioni di John Bonnar, musicista britannico con un trascorso nei Dead Can Dance. Ed è proprio a partire dagli archi di John Bonnar che si sviluppa la prima traccia del disco, “Candelaio”, introduzione perfetta che si avventura in territori Tindersticks e che conduce al midtempo con chitarra twang di “Di schianto”, brano dall’attacco fulminante (Tardano a far tardi i cani…) e un ritornello dal violino mitteleuropeo; “Qualche cosa lì fuori” risulta incombente, minacciosa e dannatamente noir, condotta da un organo che sa di soundtrack e impreziosita da un sax che scivola via come fumo di sigaretta soffiato dalla dark lady di turno; “Occhi nudi” è semplicemente una delle più belle canzoni italiane di sempre: un classico indissolubilmente legato alla performance dolente e sommessa di Cesare e al vestito sognante e sudicio che il cantautore le cuce addosso. E’ poesia da bar, fragilità alcolica, amore che si consuma per assenza di energia, magia di equilibrio e struggente moderazione;
“Nostra signora dei coltelli” vanta un inizio quasi trip hop, le chitarre trattate hanno un sapore di blues sporco e saturo e veicolano inquietudini care a gente come Tricky; la voce si sdoppia su due canali: da un lato sussurro, dall’altro trasmissione radio; fanno capolino dei sassofoni alla Tom Waits, mentre l’assolo di chitarra conclude tutto, confondendosi con gli archi in un matrimonio lercio; “La suonatrice di hammond” è un valzer erotico-musicale che avvolge indissolubilmente uomo e musicista; “Lo spazio fra di noi” è una ballata pianistica un po’ alcolica che richiama il Tom Waits pre-“Swordfishtrombones“ e quasi sembra di sentire anche la sega suonata con l’archetto da violino tipica di certi notturni dei Black Heart Procession; “Tra il tuo corpo e la cena” si fa notare per la sua bellissima melodia (“L’assenza resta qui con quel sapore di certezza alle pareti”) e una trascinante coda per trombone, basso, archi, pennate di chitarra in battere e una banda di paese su cui svetta la tromba di Roy Paci; “Venere” è una canzone avvolgente e fumosa, da spalmare come balsamo sulle ferite notturne, come quelle che vengono inferte dalla solitudine ai carcerati chiusi dentro le proprie prigioni, reali o astratte che siano (il testo ha per tema proprio il closet meraviglia di cui al titolo del disco… nel booklet è infatti possibile leggere la definizione: “Meraviglia: fascicolo dove i detenuti fanno raccolta di donne nude, di foto pornografiche o disegni osceni e che viene affittato, di solito, contro pagamento di sigarette”); “Baci di Frisia” gioca benissimo la carta della gestione dei vuoti e dei pieni con la sua trama srotolata come un sudario, tra break di chitarre post rock e un senso di sospensione che porta dritta dritta al tempo incalzante di “Bevi, stai su”, in cui la voce filtrata di Cesare intona – sopra uno scenario tremolante e una armonica che fa capolino lontana – una melodia bellissima: “Niente sarà come i fiori che volevi darle e che non hai avuto mai”; “Il boia” consente di riprendere fiato, in vista del finale costituito dalla reprise di “Qualche cosa lì fuori”, dove ad accompagnare Cesare ci sono i Massimo Volume presenti in anticipo di svariati anni con la formazione a tre che avrebbero abbracciato poi.
“Closet Meraviglia” costringe finalmente un po’ tutti a parlare di Cesare Basile. Sono infatti in molti a rimanere impressionati da questa raccolta di composizioni dai suoni saturi e lattiginosi, che mette in fila dodici canzoni talmente impregnate di notte che quasi si ha paura possano scomparire alle prime luci del giorno. Dal canto suo, Cesare sente di essere finalmente riuscito a dare forma all’universo poetico che da sempre gli ronzava in testa, vestendo con abiti eleganti e voluttuosi le sue storie di umanità ai margini.
Ed è forse questa soddisfazione squisitamente artistica a spingerlo verso un nuovo cambiamento. “Closet Meraviglia” di fatto è l’ultimo disco di Cesare in cui lo sguardo del cantante è del tutto ripiegato verso l’interno. L’ultimo lavoro in cui il mondo e le sue storie vengono guardati/utilizzati tramite il filtro dei sentimenti personali e dei bilanci più intimi. La nuova fase vedrà Cesare aprirsi al mondo: “Closet” dunque è lo schiudersi del bozzolo prima della trasformazione e, come spesso capita in questi casi, si tratta di momenti indimenticabili proprio per la transitorietà della loro bellezza.
I lavori che seguiranno vedranno Cesare asciugare il proprio sound che diventerà scheletrico come certi alberi secchi dalle forme strane. La notte verrà abbandonata in favore di un sole accecante: quello che, vivendo in Sicilia, l’artista ha avuto da sempre sotto gli occhi. Lo sguardo smetterà di indagare oscuri anfratti interiori e comincerà ad osservare con lo scopo di raccontare quel che vede.
La via verso il blues gli suggerisce di portare tutto all’osso. Di asciugare il grasso. Da cantautore intimista Cesare diventa cantastorie. Ma per riuscire a cantare una storia occorre conoscere certi segreti cari ai narratori. Come diceva il nonno di Cesare: bisogna guardare quelli bravi e rubargli i segreti. Per acquisire l’arte dell’affabulazione non si può che guardare al libro migliore che sia mai stato pubblicato e alla storia più grande che sia mai stata raccontata. Non si può che partire dalla Bibbia e dalla vicenda di Cristo. Quel libro, così indegnamente sfruttato dagli uomini nel tentativo di disinnescarne la reale portata, aprirà anche un’altra porta: quella della politica e del racconto inteso come arma di denuncia e di lotta.
IL FIATO MARCIO DI MILANO E DI UN TERRONE.
Alla fine tutto torna. La Bibbia era sempre stata la lettura preferita degli afro-americani, attirati da quelle che non erano solo storie di fughe e risarcimenti celesti, ma anche racconti che mettevano in scena la liberazione di popoli capaci di sollevarsi dalle proprie catene. Non era dunque un caso che la musica nera aveva finito per essere imbevuta di Cristo e del suo contraltare tentatore: il Diavolo.
Il nuovo corso di Cesare continua a cercare una propria via al blues e lo fa ibridando la sua formula con l’essenzialità acustica del folk. D’altronde, questi due generi sono accomunati dal forte legame con la terra che li ha originati. Seguendo questo ragionamento, la musica di Cesare comincia a nutrirsi delle similitudini che sussistono tra la Sicilia e gli Stati Uniti: il sole desertico, la presenza del verbo cristiano e una vibrazione nera che non ha paura di parlare della morte, ovvero il convitato di pietra che il mondo moderno cerca in tutti i modi di allontanare e rimuovere, concentrato nell’ansia dell’accumulo dei beni. Ebbene, invitare questo ospite rimosso equivale a un piccolo sabotaggio del pensiero dominante. In Cesare comincia a farsi sempre più urgente l’idea di attaccare il conformismo che predica futilità e, da non credente, comincia a misurarsi con il messaggio improduttivo di Cristo, uomo che offre amore incondizionato senza chiedere nulla in cambio, senza cercare di metterlo a prodotto.
Tutte queste suggestioni ronzano nella testa di Cesare, assieme ai suoi nuovi ascolti. Al solito Nick Cave si sono aggiunti band “desertiche” come Calexico e Black Heart Procession, vecchi classici americani come Johnny Cash e Townes Van Zandt, artisti folk popolari come Uccio Aloisi, fino ad arrivare a vecchie passioni come Fabrizio De Andrè.
Quando tra il 2002 e il 2003, comincia a registrare “Gran Calavera elettrica” (bel titolo ispirato dall’opera dell’incisore messicano Josè Guadalupe Posada), Cesare è passato nella scuderia della Mescal ovvero l’etichetta più importante del circuito rock indipendente, quella che aveva pubblicato tutti i maggiori successi della scena (Afterhours, Bluvertigo, La Crus, Massimo Volume, Subsonica). Le registrazioni vengono effettuate allo Zen Arcade, uno studio di registrazione che Cesare aveva creato nel 1994 al suo ritorno da Berlino e che aveva ricavato dal garage che il nonno usava come laboratorio artigianale per la costruzione di sedie da barbiere. Per il nuovo lavoro (che verrà distribuito dalla EMI) viene chiamato nel ruolo di produttore il musicista britannico John Parish. Dopo Hugo Race, affidarsi a un altro nome di grido significa aumentare le aspettative, rilanciando sul piatto. Dopotutto a sedere dietro il bancone del mix è l’uomo che, non solo ha rappresentato il braccio destro di PJ Harvey, ma che è stato anche il produttore di lavori come “Low estate” dei 16 Horsepower, “Chore of enchantment” dei Giant Sand, “Souljacker” degli Eels e lo struggente “It’s a wonderful life” degli Sparklehorse. Parish si rivelerà una spalla fondamentale per Cesare, accompagnandolo in ben tre dischi. Assieme, la personalità musicale di Basile prenderà definitivamente forma, assestandosi su un folk-blues scheletrico, le cui solide basi sono costituite dal continuo dialogo tra i suoni secchi delle chitarre acustiche e del banjo e gli spigoli geometrici, leggermente slabbrati dalla saturazione valvolare, delle elettriche.
“Che questo petto è fatto/ Cembalo d’amore
E tasti i sensi miei/ Accesi e pronti
E corde sono i pianti / sospirati ed i dolori
Rosa è il cuore mio/ Colpito a morte
E punta è il ferro e piaghe/ Sono i miei ardori
Martello è il mio pensiero/ E la mia sorte
Maestra è la donna mia/ Che a tutte le ore
Cantando canta lieta/ La mia morte”
Sono queste le parole che aprono magnificamente “Gran Calavera Elettrica”. Appartengono al brano “Cantico dei tarantati” e mostrano in maniera indiscutibile l’ulteriore crescita di Cesare a livello poetico. Una poesia che raggiunge l’apice nel secondo brano, nonché capolavoro del disco: “A che serve lo zolfo” riesce a unire le magnifiche orchestrazioni del riconfermato John Bonnar a chitarre elettriche che, dapprima si limitano al ricamo, per poi urlare mestamente come i solfatari. Non è un caso che Cesare dedichi la canzone a questi lavoratori che, bloccati per mesi nelle miniere, al proprio ritorno a casa venivano trattati come reietti, al punto tale che la loro morte, se avvenuta tra lo zolfo della miniera, non veniva nemmeno celebrata in chiesa. Si tratta di una storia perfetta per un brano folk: sembra datarsi in una Sicilia ancestrale, ma in realtà si tratta di un errore di percezione, se si considera che le solfatare in Sicilia furono chiuse solo alla fine degli anni ‘60. A seguire un altro asso del disco: “In coda”, dove si illustra il talento della Morte di inventare una fine diversa per ogni uomo. Il disco prosegue, austero e oscuro, con le batterie tambureggianti di “Apocrifo” (“Ma non dimenticare Le doglie di tua madre/ Tu che credi di sfiorare lo sterco ed invece ci stai dentro fino agli occhi/ Avresti fatto meglio a piegare il collo ai tuoi figli In tempo”), con il crescendo da brivido (con violini alla Warren Ellis) di “Senza sonno” che vede una straordinaria Nada alla voce (che con Parish alla produzione e in compagnia di Basile da lì a poco darà alle stampe l’eccellente “Tutto l’amore che mi manca” in cui figura “Proprio tu”, brano scritto da Cesare); e passa dalle melodie dolcissime di “Tutto tranquillo” a quelle solitarie e quasi spettrali di “Trave”; fino all’uno/due costituito da “Orto degli ulivi”, dove tornano gli archi di John Bonnar e dallo stomp-blues de “L’albero di Giuda”, che vanta uno dei ritornelli più trascinanti del disco.
Chiudono le ballate intimiste “Pietra bianca” (“Tu sei come il tuo seno / dormi tutta in un palmo di mano / C’e la banda che al porto sta suonando per noi, pietra bianca balliamo/ è soltanto per noi”) e “Primo concime”, fino al commiato rappresentato dalla cover della “A little bit of rain” di Fred Neil, polverosa come certe cose del Mark Lanegan acustico.
Dopo “Gran Calavera Elettrica” Cesare ha poco da dimostrare: il suo nome ormai è un classico riconosciuto della scena italiana. Ma forse raggiungere questo traguardo non vale quanto l’averlo vagheggiato…
A quel punto però non può far altro che alzare la posta e sparigliare le sue carte esistenziali. Decide di lasciare Catania e trasferirsi nella capitale musicale d’Italia. Milano. La sua dimensione di cantore del mondo esterno è affamata di curiosità. Come qualche anno prima Berlino, Cesare sceglie la città meneghina perché sembra essere il luogo dove occorre essere, ma forse vi è dell’altro. Cesare non può certo dirsi un provinciale che non si è mai allontanato dall’isola, tuttavia, per un catanese che ha vissuto con il mito di “Catania come Milano del sud ” il capoluogo lombardo ha un fascino particolare. Come Catania, anche Milano esibisce una facciata ingannevole, lasciando che la propria storia venga raccontata dai luoghi più nascosti e accessibili solo agli sguardi attenti. A Milano resterà ben sette anni, pubblicando due dischi.
Il primo dei due è “Hellequin Songs”. Vengono confermati in cabina di regia e in studio la “band” di “Gran Calavera Elettrica”: Caudullo e Corti alle chitarre (più defilato questo ultimo) e Marcello Sorge alla batteria (cui viene affiancato Jean Marc Butty, batterista francese all’opera già con PJ Harvey). I nuovi ingressi sono Giorgia Poli al basso, che sostituisce Peppe Sindona, e Michela Manfroi degli Scisma ai tasti. A impreziosire il lavoro alcuni ospiti eccellenti: l’”amico milanese” Manuel Agnelli, i “catanesi” Marta Collica e Hugo Race (ovvero i Sepiatone) e Stef Kamil Carlens (membro fondatore, nonché bassista nei primi due dischi dei Deus). Tutta gente che ritroveremo nel progetto “Songs with Strangers” di cui abbiamo già parlato.
“Hellequin song” viene registrato a Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, nell’aprile del 2005 e pubblicato nel 2006 dalla Mescal (ma con distribuzione Sony/BMG).
In una pausa della lavorazione del disco, Cesare passa una serata a Catania. Con degli amici va a vedere “Broken Flowers”, il nuovo film di Jim Jarmush. Un ragazzo, che aveva assistito alla proiezione al cinema Ariston di Catania, lo ferma e gli dice che lui è il più grande cantautore italiano di oggi. Lo dice così, come una constatazione, senza l’enfasi del fan, né la sufficienza annoiata dell’esperto. L’affermazione lo coglie di sorpresa. Dunque, è questo che è diventato agli occhi di tutti: un cantautore. E’ stato prima un punk e poi un new waver, è diventato un rockettaro e dopo ancora si è spacciato per bluesman. E adesso, a quanto pare, viene percepito come un cantautore. Dev’essere stato “Gran calavera elettrica”: la dimensione folk di quel disco faceva pendere la bilancia proprio da quel lato. La cosa non gli dispiace, certo, così come il complimento, che sembrava così sincero e genuino, e dopotutto il ragazzo ha ragione: probabilmente è il miglior cantautore della sua generazione. Perché non concederselo… Eppure il suo nuovo disco sta cercando di muoversi in una direzione, se non differente, quantomeno più sfaccettata e complessa.
E in effetti la musica di Basile subisce come un processo di stilizzazione delle forme. Le canzoni sembrano scrollarsi di dosso ogni grammo di polvere e acquisire un’architettura essenziale che sublima ogni sofferenza e istanza, indirizzandosi verso una perfezione formale che tuttavia riesce nel miracolo di non suonare fredda o artefatta. Le chitarre diventano vettori stilizzati, mentre gli arrangiamenti sembrano assumere l’aspetto di linee che intersecano con traiettorie essenziali le limpide melodie che la scrittura, sempre più consapevole, propone. Dopo la consacrazione di “Gran Calavera”, Cesare trova il suo secondo capolavoro, anche se stavolta non sono in molti ad accorgersene. La critica non fiata di fronte alla perfezione del disco, ma sembra non coglierne il nocciolo: la ricerca di una cura formale capace di farsi sostanza. Il pubblico dal canto suo continuerà a preferire “Gran calavera elettrica”.
La prima cosa che salta agli occhi nel nuovo lavoro è la presenza di brani cantati in inglese. La dimensione milanese e la partecipazione alle session di musicisti stranieri ha fatto venir voglia a Cesare di tornare a scrivere nella lingua usata ai tempi dei Quartered Shadows. L’autore mette in fila una scaletta perfettamente calibrata che scandisce un saliscendi emotivo sapientemente controllato, che si apre nuovamente con la figura di Cristo presente nella splendida “Dal cranio” (che si riferisce al Golgota dove Gesù fu crocifisso), condotta da un riff di chitarre acustiche e da un battito lontano di tamburo ( Inchiodato all’amore, crocefisso di spalle che non lo possa abbracciare. E non una bestemmia, nemmeno il dolore. Fino al luogo del cranio, per guardare dall’alto del legno la stanza e un letto ridotto a brandelli ); segue “Finito questo” che, delicatamente appoggiata su una frase di piano suonato dalla Manfroi (vero valore aggiunto lungo tutto il disco), con la sua atmosfera fragile e riflessiva mostra come a volte si può dire tutto con pochissimo; i ritmi accelerano poi con il riff quasi stoner di “Fratello gentile”, che – nell’ordine – si ispira allo splendido romanzo di Derek Raymond “E morì con gli occhi aperti” (meriterebbe una trattazione a parte la capacità di Cesare, lettore disordinato ma instancabile, di far filtrare le proprie letture all’interno dei propri testi), ipotizza un De Andrè alle prese con il rock americano più oscuro e vede ai cori la partecipazione dell’amico Manuel Agnelli (con cui Cesare ha da poco scritto a sei mani insieme a Greg Dulli la splendida “La vedeva bianca”, contenuta nel disco degli Afterhours “Ballate per piccole iene”):
“Odd Man Blues (Kill You Song Files)” è poi un’oasi acustica che si gioca la carta dell’archetipo blues con tanto di incipit che recita il più classico dei “Woke up this morning, Blues all around”. Saranno l’esperienza maturata, gli anni portati addosso e la strada percorsa, ma la voce bassa di Cesare (rincorsa e doppiata da quelle di Hugo Race e di Roberta Castoldi) risulta perfettamente credibile come quella di un vero bluesman, grazie anche a un arrangiamento che della tradizione del delta sembra aver imparato soprattutto l’austero minimalismo; “Il deserto” è un valzer vivace condotto ancora una volta dal piano della Manfroi, mentre la voce filtrata di Cesare snocciola ermetiche cartoline dal deserto che viviamo: “Piscerai sulla banca Italia, ma non fuggirai il grembo. Questo è il palco che rompe la voce, quando il canto è più dolce, questo è il giorno che piove negli occhi, questo è giusto il deserto”; con “To Speak Of Love” torna l’inglese con un blues ombroso e spettrale che nel finale sfoggia un assolo dimesso e struggente; “Dite al corvo che va tutto bene” è una ballata folk condotta in punta di banjo e vivacizzata da elettriche saltellanti che nel finale si stratificano fino a comporre una piccola polifonia blues; “Hellequin Song”, ballata spettrale che dà il nome all’intero disco, celebra la leggenda di Arlecchino, demone condottiero che nel medioevo scorrazzava fra i campi di battaglia alla guida della sua armata delle tenebre in cerca delle anime dei guerrieri morti (Il carro di Arlecchino vaga per i campi e coglie i rantoli degli uomini e delle battaglie. Il carro di Arlecchino si veste di colori che gli uomini han portato prima di farsi fuori nell’unica uniforme che vesti quando muori L’armata di Arlecchino, falange di dannati, strappati anche alla pace”); “Le feste di ieri” è una ballata minimale e dimessa che si ricorda per un bel refrain irrobustito da un prezioso origami di chitarra; “Continuous Lover, Silent Sister” torna all’inglese ed è condotta da una bella ritmica suonata da Stef Kamil Carlens al Fender Rhodes, mentre in “Usa tutto l’amore che porto” Cesare canta una delle sue melodie più fragili e uno dei testi più poetici della sua carriera, utilizzando la metafora dell’amore per giungere a un discorso dai contorni quasi politici:
Usa tutto l’amore che porto, molto meglio che farlo marcire girandoci intorno; che vederlo riposto con cura e mangiarselo dentro. Usa tutto l’amore che svendo; Fa che non me ne resti più niente, che non debba trovarmi domani a contare gli avanzi fra le cose rimaste in un angolo e prese dal tempo (…). Fa che non me ne resti più niente, che non occupi il posto degli angoli dato al rimpianto.
Il blues torna assieme all’inglese in “Ceaseless And Fierce” dove Cesare sussurra alla maniera di Howie Gelb. Concludono il bozzetto strumentale di “Tema di Laura” e il finale dimesso per voce, acustica e slide lontana di “Stella & the burning heart ”.
Quando Cesare si rigira il disco tra le mani non può che esserne soddisfatto: si era proposto di ottenere un lavoro che avesse una essenzialità dimessa e struggente, ma che al tempo stesso non cercasse la ribalta. E’ così che si sente lui stesso, d’altronde.
E adesso? Cosa si può fare più di quel che ha fatto? Dove condurre questo gruppo di straordinari musicisti di cui si è circondato? Dopo la bellezza minimale e assoluta di questo disco ci si potrebbe solo ripetere…
E infatti, dopo la pubblicazione dell’ottimo live “14.06.06” (con annesso dvd), registrato presso il club “La Casa 139”, quando nel 2008 viene pubblicato “Storia di Caino” (che segna il ritorno a una piccola, ma prestigiosa etichetta indipendente: la Urtovox), ecco che il disco sembra scontare tutto il peso del capolavoro che lo precede. Nonostante si tratti di un episodio di assoluto valore, si può sostenere che, se non mostra una vera e propria stanchezza, di certo non riserva sorprese. E ciò nonostante alcuni episodi di spessore come “All’uncino del sogno” (una delle più belle canzoni scritte da Cesare e dunque una delle più belle canzoni scritte in Italia negli ultimi anni) e “Canto dell’osso” (che gioca nello stesso campionato di “Fratello Gentile” aggiornandone e forse migliorandone la lezione). Si tratta forse del disco più deandreiano di Basile (a questo punto unica vera pietra di paragone per il cantautore catanese) ed è proprio questa conquistata e celebrata dimensione cantautoriale che sembra nuovamente costringerlo in una gabbia. E se ancora una volta torna l’inquietudine, questa volta Cesare sembra avere meno energie per farvi fronte. La verità è che è stanco: la vita milanese lo ha prostrato e di conseguenza la sua musica non può che esprimere sofferenza, come quella che trasuda dalla meravigliosa “Sul mondo e sulle luci”. E “Storia di Caino” è davvero il disco più sofferente di Cesare, pervaso da un sentimento di assenza che genera un diffuso e indistinto senso di perdita: di Dio, dell’amore, della pietà, della bellezza. Un senso di abbandono che porta anche al rancore: basti ascoltare la rabbia sanguinario presente in “Storia di Caino”, ben espressa in uno dei versi più belli del nostro: “ma solo quando ti ho servito con il sangue, ti sei accorto di me”.
E’ tempo di lasciarsi Milano alle spalle e il commiato alla città meneghina non può essere più amaro di quello rappresentato da un altro dei vertici del disco: “Il fiato corto di Milano”, canzone che mostra peraltro come la dimensione libertaria stia sempre più prendendo piede nella poetica dell’autore (Nessuna lacrima mostri stupore quando l’ordigno farà il suo dovere. (…) Il fiato corto di Milano lungo un Naviglio da espiare. Il fiato marcio di Milano e di un terrone. Siamo la carne dei nostri cannoni, armati il giorno di Natale. Lumi di oscena democrazia. Lumi di debiti da esportare. Scarti di un bacio fra immobiliaristi a contendere d’amore. Cosa volete che me ne freghi, se ci faranno saltare in aria? (…) Venga chiunque a fare banco, vengano pure a grufolare: qui non c’è gloria e non c’è onore da serbare).
Cesare capisce che è arrivato il momento di voltare pagina: era andato a Milano per liberarsi dal pantano catanese in cui sentiva di essere bloccato e aveva scelto la sede più efficiente dal punto di vista della logistica, quella più conveniente per agevolare la propria “carriera”. Ma adesso che questa famosa “carriera” è infine arrivata e i che clamori del mondo e delle sue luci hanno finito per deluderlo e stancarlo, decide che è tempo di riportare tutto a casa. E la sua casa non può che essere, ancora una volta, Catania.
CATANIA (Take Three).
Il ritorno a Catania avviene dopo un lungo tour fianco a fianco con i Willard Grant Conspiracy. Robert Fisher, leader e unico depositario della sigla americana, aveva partecipato al disco “Storia di Caino” con una bella interpretazione del brano “What else have I to spur me in to love”. Tra Cesare e Robert era nata una bella amicizia (oltre che una comunione artistica scritta nelle stelle) che li aveva portati prima a un tour italiano condiviso (con la bravissima Marcella Manfroi a supportarli) e poi a una tournée europea dove Cesare faceva da opening act, nonché da componente della band americana.
Il tour con Fisher segna solo l’inizio di un peregrinare di circa due anni: Cesare ha deciso di lasciarsi alle spalle Milano ma, prima di tornare a Catania, si lancia in un girovagare ritemprante.
In questi due anni, scrive e registra, conosce gente, ma soprattutto matura delle nuove idee o forse semplicemente porta a compimento pulsioni che già da tempo covava dentro e che le sue canzoni avevano aiutato a far emergere.
Come musicista è conscio che la sua ricerca non può che avere un obiettivo preciso: ripercorrere a ritroso il percorso della canzone, fino a giungere al punto esatto in cui canzone popolare e blues si sono separati. In quel crocicchio, Cesare pianterà le tende e canterà la sua canzone. Come uomo sa che quella strada porta, metaforicamente e concretamente, alla sua terra: la Sicilia. Già, la Sicilia.
L’isolano è diverso dal provinciale. Chi vive in un’isola non si sente periferia di qualcosa di più grande e centrale. Il distacco è maggiore: l’essere corpo geografico isolato si trasferisce dal territorio all’abitante. Chi va via dalla Sicilia, spesso lo fa per rabbia e per rancore e, a quel punto, è pronto a misurarsi con un mondo che crede diverso e migliore: cresciuto con il mito dell’arretratezza e della delinquenza della propria terra, si prepara a conoscere la “civiltà”. Come molti siciliani, Cesare è partito curioso di vederlo questo mondo “migliore” e, in cambio del suo girovagare, ha ricevuto uno sguardo lucido sulle cose del mondo. Gli risulta chiaro adesso che i luoghi non possono essere giudicati, né messi impilati in una classifica di qualità. Perché qualunque classifica è arbitraria, permeata com’è da quella logica della competizione che appiattisce tutto e non tiene conto delle minoranze presenti nei luoghi. Le classifiche restituiscono solo una parte del quadro, ovvero l’identità maggioritaria. Ma è proprio quando non ci si riconosce in tale identità che bisogna diventarne preziosa minoranza. È in quel momento che occorre rivendicare appartenenza e possesso, perché la minoranza è testimonianza attuale e speranza di influenza futura.
E, dunque, se la Sicilia sa essere un luogo tremendo da cui spesso si scappa con la promessa di non tornare, allora ha senso ritornarvi solo per rimettersi in gioco. Con l’acquisita consapevolezza che non si stava scappando dalla propria terra, ma piuttosto da chi quella terra la stava devastando.
Cesare ricorda bene gli anni della scena rock catanese, quando negli ‘80 si gettarono i semi che fiorirono poi nei ‘90: la formula vincente allora era stata la voglia di vivere collettivamente e di far crescere qualcosa che andasse oltre le singole persone e i singoli artisti. La soluzione non può che essere questa: riconoscersi tra chi sente di non appartenere al meccanismo e poi lottare, collettivamente e individualmente, cercando di incidere nella propria fetta di territorio, svolgendo semplicemente al meglio la propria occupazione di ogni giorno. Il ritorno a casa comincia da qui.
Ma si diceva dei due anni passati in giro a ritemprarsi. E infatti più ritorna verso Itaca, più Cesare si sente forte, al punto che, quando nel 2011 uscirà per Urtovox il suo nuovo disco, le relative scelte artistiche e produttive verranno prese dal cantante stesso in prima persona, senza ricorrere all’aiuto di produttori esterni (a coadiuvarlo in questo ruolo però provvederanno Guido Andreani e Luca Recchia). Nonostante la genesi nomade e l’assenza di una vera e propria band, si tratta di un disco dalla forte impronta unitaria e a Cesare piace pensare che sia stata la sua visione ad aver dato unitarietà e omogeneità a tutto.
Il disco si intitola “Sette pietre per tenere a bada il diavolo”. Un titolo che con il suo menzionare il diavolo e le pietre richiama tanto il personaggio principale del blues, quanto il deserto terroso del folk. Sembrerebbe dunque un titolo perfetto, frutto di scelte ben ponderate, ma che in realtà nasce per puro caso da un file audio ascoltato nel computer del compianto Stefano Facchielli (il D. RaD degli Almamegretta) durante una fase del missaggio, in cui le apparecchiature avevano smesso di funzionare.
Le sette pietre sono un amuleto che serve a tenere lontano il diavolo e si traducono in dieci canzoni eccellenti, condotte ritmicamente dal colore scuro delle percussioni e dei tamburi (nel disco non è presente alcuna batteria).
Si va dal groove etnico de “L’ordine del sorvegliante” (Certe volte la canzone è un asino che raglia e l’amore una faccenda troppo delicata per lasciarla a voi) al cantautorato blues de “Il sogno della vipera”, in cui ogni parola viene scandita lentamente, quasi a voler rendere la fatica necessaria per mutare pelle ogni volta, senza mai tradire la propria essenza più intima e vera (“E ho chiesto al corvo sul tuo seno, gli ho chiesto ancora una volta: dimmi chi sono, non dirmi quel che ero).
Seguono i due ritratti di donne de “L’impiccata”, dal groove quasi beefheartiano, e di “Strofe della guaritrice”, eccezionale resa di un’intervista effettuata da Danilo Dolci negli anni ’60 in cui una guaritrice siciliana, nel descrivere quelle che erano a suo avviso le cause di alcune malattie, finiva per comporre una ricognizione della più intima essenza della natura umana e del mondo; “Er Alavò” è un episodio onirico come una ninna nanna minacciosa: se la strofa richiama il sempre caro De Andrè, il resto del brano è affidato a una spettrale filastrocca cantata in siciliano (i baroni han scacciato le troie, e comprato le case, che la roba concima la roba, mentre i morti si mangiano i morti”); “Elon Lan Ler” è una rielaborazione di un brano di Frane Milenski Jezek, originariamente registrata per la colonna sonora di un film sulla vita dell’artista sloveno. Se le orchestrazioni quasi cinematografiche, curate da John Bonnar, si collocano un po’ fuori dal canone del cantautore, non può certo dirsi lo stesso del testo che descrive una classica murder ballad (simile a quella de “La Ballata dell’amore cieco”); “Sette Spade” è un trascinante folk che descrive l’esecuzione di una condannata a morte, mentre ne “Lo scroccone di Cioran” si delinea orgogliosamente per contrasto la propria figura di artista (Sono liberi solo i peggiori che si fanno mezzi poeti e si allenano al giusto ogni giorno, disertando le strade della fatalità/ (…) Al vostro codice penale ideale ho preferito scroccare all’abisso e ora conosco la disperata paura in mezzo alle parole, quella paura di crollare con tutte le parole). Chiudono “La sicilia avi un patruni” che riprende magnificamente il brano di Ignazio Buttitta e Rosa Balistreri e “Questa notte l’amore a Catania”, commiato fragile e delicato, di cui non dirò nulla se non che sono 1 minuto e 39 secondi di brividi assoluti (Questa notte l’amore a Catania è codardo e di sgherri, è una fossa scavata per lasciarvi cadere le cicche).
“Sette pietre per tenere a bada il Diavolo” è un disco che si direbbe di transizione, se questo termine di solito non servisse a individuare lavori minori, seppure importanti per lo sviluppo della carriera del loro autore. Cesare invece affida tale passaggio a una sequela di brani formidabili. Si tratta peraltro dell’ultimo disco dell’autore, almeno fino ad oggi, cantato in prevalenza in italiano. Da quel momento, Cesare ritorna in Sicilia e questa volta l’immersione è totale, anche perché – come dicevamo prima – decide di rimettersi in gioco pubblicamente in una dimensione tutta politica e sociale.
La prima mossa è la partecipazione attiva nella creazione de L’arsenale – Federazione Siciliana delle arti e della musica. Si tratta di una organizzazione fondata e portata avanti da artisti siciliani con lo scopo di promuovere una partecipazione, orizzontale e multidisciplinare, che più che valorizzare il territorio vuole riattivarne la vitalità comunitaria, sempre più massacrata dal contesto socio-politico dominante. Tutto ciò al fine di far rinascere una terra che si presenti come autarchica e indipendente, nonché capace di scrollarsi di dosso la narrazione avvilente tutta assorbita nella dicotomia emigrazione/ immobilismo. Al sostegno della federazione, di cui diventa uno dei nomi di spicco, Cesare decide innanzitutto di dedicare la prima parte del tour di “Sette pietre”. L’Ovunque in Sicilia Tour tocca qualunque locale, associazione, casa privata, cortile e crocevia si renda disponibile per una esibizione del cantante catanese che, con questo tour, scrive una lunga lettera di amore e di riappacificazione con la propria terra.
L’esperienza de L’Arsenale porta con sé una carica libertaria formidabile. Si tratta di un detonatore che esplode con una potenza per nulla distruttiva, ma al contrario assolutamente vitalistica e liberatoria. Cesare viene da un periodo da cui è uscito stremato. I due anni appena trascorsi lo hanno però disintossicato da tutte le scorie (anche mentali) accumulate, ma ora ha bisogno di una disciplina cui tendere. Il blues, la canzone popolare e il folk, l’antagonismo verso il sistema, la polvere del deserto e le figure cristologiche che popolano i quartieri lasciati indietro dalla narrazione dominante sono elementi di un quadro che è andato componendosi negli anni nella sua testa e che sembra far convergere tutti i suoi elementi verso un unico ideale punto di caduta: l’anarchia.
Per Cesare l’anarchia è l’ideale verso cui tendere con lo scopo di creare una comunità in cui ogni individuo sia un mondo a sé, capace di vivere con gli altri, proprio perché reciprocamente viene rispettato l’assunto che ogni individuo costituisce un mondo a sé, libero. Uno slancio verso l’esterno, che necessita di una grande disciplina interiore: per forgiarla, il nostro decide di misurarsi con la disciplina del Bastone Siciliano, che inizia a praticare con il maestro catanese Alfio Di Bella. Si tratta di una disciplina simile alla scherma, dove i partecipanti utilizzano dei bastoni ricavati dai rami degli alberi di arancio. Cesare ci si immerge e trova ristoro soprattutto nel suo essere attività improduttiva e priva di valore di mercato, i cui frutti rimangono tutti interni all’individuo che la pratica. Si tratta di un gesto personale, ma dagli innegabili e metaforici risvolti politici.
L’esperienza de L’Arsenale trova il suo naturale sviluppo nell’occupazione del Teatro Coppola di Catania. Nel dicembre del 2011, infatti, un gruppo di cittadini catanesi decide di seguire l’esempio del Teatro Valle di Roma (che aveva aperto la feconda stagione dei teatri occupati) e si appropria del più antico teatro comunale cittadino: il Coppola. L’occupazione viene condotta in maniera libera ed è estesa a chiunque voglia condividere un nuovo spazio di espressione sociale, artistica e politica, in aperta polemica con l’incuria della gestione comunale. A Cesare piace pensare che si tratti di una vera e propria vendetta, nonché di un furto perpetrato ai danni di quella autorità centrale che nega l’esercizio di una naturale vita comunitaria.
Forte di una ritrovata (o finalmente acquisita) pace interiore e di un ideale verso cui tendere, anche la musica di Cesare inevitabilmente risulta influenzata dal momento e finisce per portare a compimento i segni della rinascita che già con “Sette Pietre” si intravedevano: il disco successivo del 2013 risulterà infatti un capolavoro indiscutibile, nonché pietra d’angolo su cui costruire il resto della propria carriera.
Per titolare questo nuovo inizio, con la più classica delle scelte, si opta per il “Self/titled”. Il lavoro viene edito ancora per la Urtovox ed è prodotto dallo stesso Basile assieme a tutti i musicisti che vi hanno suonato. Rispetto al lavoro precedente, la schiera dei collaboratori si è ridotta: vengono riconfermati i “milanesi” Rodrigo D’Erasmo ed Enrico Gabrielli, i collaboratori “storici” Marcello Caudullo e Massimo Ferrarotto, oltre a sicurezze come Luca Recchia, Andrea Pesce, Guido Andreani e al cantautore Marco Iacampo. Il disco consta di 10 canzoni di cui 6 cantate in siciliano. Una lingua che sembra donare una maggiore profondità al blues viscerale di Cesare.
La scelta di passare al siciliano (che finirà nei successivi lavori per prendere totalmente il posto dell’italiano nelle composizioni) risponde ad alcune esigenze in cui – come sempre per questo artista – sfera personale, musicale e politica si intrecciano. Innanzitutto, l’approdo al dialetto conclude la ricerca verso quella autenticità, primitiva e ancestrale, che Cesare aveva scorto per la prima volta ascoltando i bluesman afroamericani delle origini. Se fin dall’inizio aveva capito di non essere interessato a una calligrafica esecuzione di questa musica, con il tempo ne aveva compreso appieno le ragioni: quello di cui andava in cerca non era il blues in sé, ma ciò che, tramite il blues, quei musicisti di colore erano riusciti a mettere in musica. Ovvero la capacità di tradurre, in una forma quanto più possibile spontanea e immediata, tutto il carico di dolore, speranza e spiritualità e, ancora, di amore, rabbia e desolazione che quel popolo sfruttato stava vivendo sulla propria pelle. Ma se questi sentimenti rappresentano l’esito ultimo cui la sua musica deve giungere, allora non è più necessario cercare l’America nei paesaggi e nella calura siciliana: la sua terra è di per sé un serbatoio naturale di tutta la violenta visceralità di cui è in cerca. Accordare il proprio canto sulla nota vibrante e dolente degli sfruttati e delle minoranze si iscrive in un percorso di vita che si snoda lungo diverse tappe che vanno dall’adesione all’ideale anarchico, al desiderio di fuggire ogni rigida struttura sociale e politica che viene imposta. Ma per porsi al di là del teatrino democratico imbastito dal potere, occorre innanzitutto recuperare una propria dimensione pre-strutturata che sia precedente all’età adulta, la quale presuppone l’accettazione dei compromessi imposti da questa oscena declinazione del vivere comune. La via per recuperare tale dimensione è quella di abbracciare la lingua parlata nell’infanzia: quel dialetto siciliano abbandonato per farsi largo tra le cose del mondo e i suoi compromessi, oggi finalmente – dopo una lunga maturazione – fieramente rifiutati. L’approccio a questa lingua non potrà che essere bastardo e meticcio e senza l’ombra di tentazioni accademiche o filologiche: insomma, si utilizzerà lo stesso approccio ecumenico usato per le musiche, mettendo sullo stesso piano termini arcaici e moderni, linguaggi incontrati nei libri di storia ed espressioni in uso nei quartieri.
Il nuovo Cesare Basile si presenta con un sound che sembra aver messo a pane e acqua le proprie canzoni. Ma tale immagine non faccia pensare a un suono povero, in quanto – ad ascoltare bene – ogni pezzo è in grado di scatenare la caccia al dettaglio nascosto tra le corde delle chitarre, dei violini e del banjo o tra le pelli scure dei tamburi e i tasti del piano, degli organi e delle fisarmoniche, oppure ancora nel respiro infuso dentro gli strumenti a fiato che sgusciano via tre le parole austere e vibranti di Cesare. Il quale descrive in questa maniera il processo che lo ha portato alla scrittura di questo album:
“Queste canzoni sono cresciute da sole, in Sicilia, fra la polvere di cantiere di un teatro occupato. Non avevo tempo per suonare la chitarra. Dovevo impastare il cemento, dare la calce ai muri, passare linee elettriche. Evitare che gli idioti e gli infami mi rovinassero il piacere di ignorare il Potere. Sono cresciute da sole, senza strepiti, senza smanie o affanno, determinate a venir fuori quando sarebbe stato il momento. Poi in estate, mi sono seduto, ho passato di nuovo sulla chitarra le mani secche di tanta polvere e ho cominciato a suonarle queste canzoni. Non credo di averle scritte o, se è successo, è successo talmente in fretta da non rendermene conto.”
Cesare Basile si presenta nella sua nuova veste di cantatore nel brano d’apertura “Presentazione e sfida”, dove l’istrione si presenta e sfida (altri cantatori? Gli ascoltatori?) “a competere con lui nella narrazione d’amore, gelosia, separazione e sdegno”; la trascinante e maledetta “Parangelia” ha un riff alla Tom Waits ed è dedicata alla poetessa anarchica greca Katerina Gogou, il cui suicidio nel ’93 aveva stroncato anche una carriera di attrice che l’aveva vista recitare nel film del 1980, da cui la canzone di Basile prende il nome (il film raccontava la vicenda di un controverso personaggio greco, Nikos Koemtzis, condannato a 23 anni di galera durante la dittatura militare per aver ucciso in una rissa tre persone, due dei quali poliziotti in borghese); “Canzoni Addinucchiata” è il primo dei due ritratti femminili scritti in collaborazione con la poetessa Dina Basso (il secondo si trova nel disco successivo e farà ancora meglio), dove si racconta la storia di una donna costretta in ginocchio per tutta la vita al punto che, quando da morta viene messa nella bara, è incapace di starci distesa; “Nunzio e la Libertà” rievoca i fatti di Bronte e i misfatti compiuti da Nino Bixio, vera macchia scura del Risorgimento italiano, dove il sangue versato e la successiva giustizia sommaria che vedeva l’esecuzione militare anche dello scemo del paese (il Nunzio della canzone) mostrano in maniera paradigmatica come gli interessi della povera gente vengano sempre sacrificati alle confliggenti esigenze dello Stato e come chi si presenta come liberatore spesso in realtà non fa altro che farsi complice e legittimare il potere preesistente; “Maliritta carni” è un meraviglioso spiritual senza tempo che celebra il dolore degli sfruttati di ogni tempo: si parla dei lavoratori a giornata, ma il riferimento al mare getta un ponte di fratellanza tra i moderni migranti e gli affamati di ogni tempo.
“Minni spartuti” è l’ennesima murder ballad che ha per vittima “una donna del popolo, detta Minni Spartuti a causa della bellezza e della perfetta divisioni del suo seno, che viene fatta uccidere dall’amante patrizio per il quale la relazione è diventata scomoda e sconveniente” (n.b. tratto dalle note di copertina del disco); “L’Orvu”, illuminante storia di un uomo che per giungere al cuore delle parole decide di farsi cieco (così come ciechi erano, nell’antichità, i depositari dell’arte del racconto), conquistando così la propria dimensione più libera; “Caminanti” è una ballata spettrale, così come spettri invisibili sembrano essere i matti che la poesia di Cesare, fragile come il vetro, descrive con malinconica dolcezza (Non si ascoltano i pazzi per quello che dicono, che vorrebbero dire, ma ogni tanto uno sguardo, si leva il ricordo che eravamo ragazzi e di gioco si poteva impazzire che qualcuno alla fine c’è riuscito davvero, qualcun altro per finta o a fatica ha imparato a dormire); “Lettera di Woody Guthrie al giudice Thayer” è ispirata al brano che Woody Guthrie scrisse pensando al giudice che aveva condannato ingiustamente gli anarchici italiani Sacco e Vanzetti. Il disco si conclude con la meravigliosa “Sotto i colpi di mezzi favori”, ispirata a una poesia di Danilo Dolci e talmente bella che sembra alleviare come balsamo il dolore della miseria morale che descrive (Qui le offese sono offerte di pane e nel pane si nasconde l’offesa /(…) a guardare questa strada dall’alto non lo vedi il mestiere dei servi chiusi nelle botteghe a forgiare il ricatto e la democrazia / inchiodare le bare, tatuare i presagi di un piano regolatore / i pezzenti allevati a padrone sono la guardia migliore, son guardie da sempre/ Non lo vedi a guardare dall’alto…/ A guardare dall’altro non le vedi le schiene spezzate sotto i colpi di mezzi favori/ I signori seduti al caffé consumare il diritto di pochi / a marchiare le carni con un ferro di riconoscenza e una stretta di mano/ ma nel buio di ogni seme c’è il segno di una sorte rappresa nei canestri dei boia… non lo vedi dall’alto).
Al Premio Tenco, il disco vince la targa per il miglior album in dialetto. Premio che non verrà ritirato da Cesare in aperta polemica con il concorso, reo di aver cancellato una già programmata manifestazione organizzata dal Teatro Occupato Valle, a causa di contrasti tra il teatro stesso e la Siae. Una scelta che servirà come cassa di risonanza per prendere pubblicamente le distanza dalla Siae, organizzazione colpevole, secondo il cantante, di una gestione verticistica e monopolistica dell’arte, inconciliabile con la sua visione di una cultura liberata e sottratta ai privilegi corporativi. Il dissidio con la Siae sarà tale che le canzoni del suo nuovo disco non saranno tutelate dalla stessa: il loro utilizzo sarà libero, quando non contempli fini commerciali o di lucro. L’utilizzo per tali fini andrà invece discusso direttamente con l’autore.
E se c’è sempre qualcuno pronto a bollare qualunque presa di posizione come opportunistica e volta a ottenere visibilità, Cesare davvero non sembra curarsene: il suo lungo cammino gli ha portato in dote una forza composta in parti uguali di arroganza e umiltà che lo pongono al riparo da qualunque polemichetta. Una forza che artisticamente gli consente di rilanciare ancora una volta la posta in palio: il nuovo disco, se possibile, perfeziona ulteriormente la formula e spinge ancora di più il pedale sulla propria personale visione politica, al punto da diventarne quasi il manifesto.
“Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più” viene pubblicato nel 2015 ancora da Urtovox ed è disco che predica la necessità di sottrarsi alla cultura del permesso e invita a reagire con disciplina al diniego ignorante e alla cattività dello spirito che il Potere impone a chi vorrebbe “offeso e contento”.
Ad accompagnare Cesare in questo nuovo viaggio sono, oltre al rodato “nocciolo duro” costituito da D’Erasmo, Gabrielli, Andreani, Recchia, Ferrarotto, nuovi e vecchi amici come Fabio Rondanini, Simona Norato e Manuel Agnelli. La produzione del disco viene intestata a tutti i musicisti che vanno così a costituire la prima incarnazione dei “Caminanti”, ovvero la band che seguirà Cesare nei suoi live e che da subito si presenta come collettivo aperto e mutevole non solo da tour a tour, ma a volte anche da data a data.
Rispetto al precedente, il suono del nuovo album recupera una maggiore elettricità e una fisicità più dirompente, che dal vivo si traduce in un’esaltante matrimonio tra chitarre elettriche, batterie, percussioni, fiati, violini e tastiere, che sul palco si rincorrono ricercando potenza e intensità e donando ulteriore energia alla vis polemica di Cesare.
Vis polemica che a dire il vero non avrebbe bisogno di ulteriori aiuti, potendo contare su testi che rappresentano delle vere e proprie fucilate in faccia a tutte le convenzioni che coprono – come un velo – i meccanismi di un Potere che sottomette l’uomo. E così ne “La vostra lurida cambiale”, affidata alla voce della vecchia amica dei Not Moving e dei Lilith and the sinnersaints Rita “Lilith” Oberti si declina un terribile mea culpa che ci riguarda tutti:
Sono colpevole certamente, sono colpevole di sicuro,
com’è colpevole questo tempo a cui annusate ogni giorno il culo
Com’è colpevole la bestemmia, quando la legge la scrive il muro,
sono colpevole mio malgrado e non ho lingua per il futuro
Sono colpevole per i campi arati a sangue e mai seminati
Campi di ceneri, campisanti, le luminarie dei condannati
Sono colpevole per l’usura che inizia un uomo alla rapina
Com’è colpevole l’impazzito che sposa il male di luna piena
Sono colpevole per la faccia che non si appende su una rete.
Per i recinti calpestati, il calvario della sete
Sono colpevole e reticente gli unici nomi che ho da fare
Sono le vostre credenziali, la vostra lurida cambiale
Sono colpevole di paura dentro una scuola e senza uscita
Come la rabbia dal viso duro, cresciuta offesa e mai guarita
E la paura si guarda intorno non vuole essere spaventata
Questa paura che non ha pace che si paga la giornata
Sono colpevole certamente, sono colpevole di sicuro
Sono colpevole di vergogna, sono colpevole di spergiuro
Sono colpevole e reticente, gli unici nomi che ho da fare
Sono le vostre credenziali, la vostra misera cambiale.
Un disvelamento delle logiche del potere che prosegue nelle scomode verità enunciate con linguaggio semplice in “Libertà mi fa schifo se alleva miseria”:
La tua pace è guardiana di antica miseria
è il silenzio in cui pregano governi e banchieri
per profitto, dovere, sortilegio e rapina
la tua pace a usura per la guerra che arriva
Una mano che offre e quell’altra che offende
una piange il sudario e quest’altra lo vende
per l’infamia che veste divise e trattati
io ti devo il disprezzo non ti devo i caduti
Fratellanza è la cena che decide il salario
uguaglianza è dei morti costretti al fucile
libertà mi fa schifo se alleva miseria
è la pace a usura per la guerra che arriva
L’attacco frontale alle convenzioni sociali trova l’ultimo tassello nel rifiuto del concetto di lavoro salariato così come elaborato nelle società moderne. Nella splendida ballata per pianoforte “U chiamanu travagghiu” il lavoro viene descritto come atto di sottomissione, ricatto spacciato per dono, dovere venduto per diritto che si riprende furtivamente di notte tutto quanto sembra concedere. Secondo Cesare il lavoro è un falso mito dell’età moderna, che ha il solo scopo di incatenare gli uomini: spacciato per benevola concessione, è un perfetto meccanismo di controllo che sembra avvolgere gli uomini in un incantesimo così potente da spingerli persino a provare gratitudine verso il proprio carceriere. Un incantesimo retto dal senso di colpa derivante dalla stigmatizzazione sociale dell’improduttività, che però può essere spezzato mediante il rifiuto di quei divieti sociali che non hanno altro scopo che mortificare la dimensione più operosa e creativa dell’uomo, quella che rende il lavoratore padrone e responsabile del proprio prodotto. Un rifiuto che viene ben espresso nella frase mormorata, tra violini struggenti e cori femminili, nella canzone che dà il titolo all’album: “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più”.
Il resto del disco si divide tra la filastrocca elettrica di “Ciuri”, il marziale e arrembante omaggio ai pupari siciliani di “Manianti”, le chitarre africane alla Tinariwen di “Filastrocca di Jacob detto il ladro” (raccolta di imprecazioni siciliane contro il Potere condotta al grido di “Cunnutu do Re”) e il blues zoppicante come da lezione waitsiana de “A muscatedda”.
Resta ancora da rendere giustizia al brano introduttivo “Araziu Stranu”, che celebra Orazio Strano, sorta di controverso Robert Johnson siciliano: cantatore, guaritore, morto misteriosamente (proprio come accadeva ai bluesman del Mississippi) che, oltre a costituire un emblematico ponte tra Sicilia e America, diventa l’ennesimo ritratto di cantante libertario che ha vissuto conscio di dover “imbastire racconti” se non si vuole avere un padrone.
Altra microstoria vissuta al livello della strada è quella narrata nel brano “Franchina”, indimenticabile cartolina del quartiere San Berillo di Catania (quello delle prostitute, per intenderci), così come fotografato dal film “Gesù è morto per i peccati degli altri”, diretto da Mariella Arena e ispirato dal libro del transessuale Francesco Grasso detto appunto “Franchina”. La canzone è stata scritta per la colonna sonora del film ed è un tripudio di mandolini, fiati e violini volto a ricreare la sensazione di quartiere vociante in cui è ambientato il brano. Il testo meravigliosamente poetico rappresenta la seconda collaborazione di Cesare con Dina Basso e raggiunge vette altissime soprattutto nel dipingere il divario tra lo squallore e l’ipocrisia di chi frequenta la prostituta e l’intimo rapporto che la stessa ha con Gesù, salvifico fine di una vita vissuta ai margini della società (e Gesù mi ha consigliato di donarlo il mio conforto che lui di me non si è scordato).
Un grande disco non può non avere un grande finale e “Di quali notti” assolve perfettamente a questo compito, chiudendo con enfasi e grandeur visionaria un album che Cesare definisce come una lunga canzone che racconta “di pupari, ladri, cantastorie, travestiti innamorati di Cristo e saltimbanchi della barricata. Un’invettiva di cenci intrecciata ai nomi di chi un nome non ce l’ha, non ha appartenenza, né ingaggio, prestazione o valore di scambio”.
CAMINANTE.
L’accoppiata costituita da “S/T” e da “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più” ha avuto il pregio di urlare a gran voce e nel migliore dei modi dove era giunto Cesare, sia come musicista che come uomo.
In particolare “Tu prenditi” è stato – come si diceva – un manifesto politico, in cui si scorgeva l’urgenza di far pervenire il proprio “messaggio”. Non è forse un caso che si tratti dell’ultimo disco di Cesare in cui sono ancora presenti dei brani in italiano e che tale lingua peraltro venga utilizzata nelle canzoni più dirette dal punto di vista politico.
Ma adesso che il dispaccio è stato inviato forte e chiaro, Cesare sembra ripiegarsi nella sua nuova e acquisita dimensione popolare. Il nuovo lavoro “U fujutu su nesci chi fa”, edito nel 2017 da Urtovox, si addentra ancora di più nella canzone siciliana. Sarebbe certamente improprio parlare di ulteriore “svolta etnica”, visto quanto questo elemento fosse già presente nei lavori precedenti, ma non vi è dubbio che il nuovo disco opera un rovesciamento di prospettiva: da cantante rock che, via blues e folk, era giunto alla canzone popolare, si passa a un vero e proprio cantatore siciliano, che ibrida le proprie composizioni con influenze blues e, sempre più lontane, reminescenze rock. Un rovesciamento di prospettiva che si traduce in canzoni il cui andamento presenta le scansioni armoniche e melodiche tipiche della canzone popolare siciliana, mentre il cantato insiste nel tipico vibrato che caratterizza le interpretazioni di questa musica. Il disco risulta pertanto più ostico dei precedenti, soprattutto per le orecchie meno allenate a certe sonorità regionali, alle quali peraltro viene sottratto anche il gancio “moderno” rappresentato dalle sonorità rock e blues. Sonorità queste ultime che, nel frattempo, hanno proseguito il loro percorso a ritroso nella storia, passando dalle scarnificate scansioni del blues rurale afroamericano alle reiterazioni ipnotiche delle chitarre africane.
La nuova formazione dei Caminanti che partecipa alle registrazioni del disco vede all’opera Massimo Ferrarotto, Sara Ardizzone, Simona Norato, Luca Recchia, Guido Andreani e Roberta Gulisano, mentre Caudullo, Gabrielli e D’Erasmo figurano come ospiti con preziose partecipazioni.
Dopo il fenomenale uno-due dei dischi precedenti, probabilmente “U Fujutu” sconta un po’ il peso del confronto, nonostante vanti episodi arcani e affascinanti come “Cincu pammi”, in cui si omaggia il maestro Alfio di Bella e in generale l’arte, marziale ed esistenziale, del bastone siciliano:
“Cola si fici focu”, in cui i Caminanti sembrano davvero una versione siciliana dei Bad Seeds periodo “Murder ballads” (solo che qui la morte è quella che si dà il protagonista stesso del racconto, dandosi fuoco e finendo per evocare il sinistro cane dell’inferno); “Storia di firrignu”, dove si riprende da “Manianti” il tema dei pupi siciliani e da “L’orvu” la figura del poeta cieco, scomodando nientemeno che il sommo Omero in persona, simbolo di una narrazione che soddisfa il desiderio escapista dei popoli, e infine “U fujutu su nesci chi fa”, tarantella insinuante retta da chitarre intrecciate fra di loro come un cestino di vimini. Il titolo si riferisce al “Fujuto”, ovvero la carta dei tarocchi siciliani, simile al “matto” di quelli marsigliesi, che diventa metafora dell’imprevisto che arriva a scompaginare la situazione pregressa e ci pone di fronte alla domanda su come reagiremo di fronte al cambiamento.
Non è un caso che venga scelto questo brano a intitolare un lavoro che ha il fascino ancestrale della terra in cui è ambientato e che affastella suoni sinistri come fossero nubi presaghe di sventure, producendosi in nenie inquietanti, voci femminili malevole e rinunciando agli abbellimenti del rock. Un lavoro che pesca nello spirito primordiale della Sicilia, ma che predica per il presente la necessità del cambiamento: l’arrivo del Fujuto, dell’imprevisto che spariglia le carte.
Un anelito al rinnovamento che Cesare non abbandona nemmeno nel nuovo lavoro in uscita in questi giorni, dove l’avvento dell’imprevisto che innesca il cambiamento viene affidato alla metafora della cometa (Cummeddia in siciliano), il cui passaggio “è segno infausto, presagio di sventure pubbliche, monito divino, annuncio di peste”. Ma è proprio quando la peste diventa regola, portando con sé l’idea del perenne stato d’assedio, dell’emergenza continua e della necessaria sospensione delle libertà, che diventa inevitabile la rivolta. E chi fa il mestiere di cantante non può sottrarsi al concetto di rivolta… Dopotutto a Cesare sembra ormai che il senso del suo mestiere non possa che essere questo: unire chi racconta e chi ascolta come fossero parti di un medesimo meccanismo che rende potenzialmente possibile il cambiamento. Un mutamento che deve passare nella quotidianità da un differente modo di pensare le cose. Altro senso per questo mestiere Cesare non riesce a trovare. La storia dei soldi se l’è lasciata alle spalle da tempo, perché tanto ha capito che “nessuno ti pagherà mai per essere quello che sei”.
Prima di addentrarci nell’ultimo disco “Cummeddia” edito da Urtovox nell’ottobre del 2019, tocca però dare conto di alcuni eventi che hanno occupato Cesare lungo tutto il 2018.
Innanzitutto di un bell’EP uscito solo in digitale e intitolato “Ntra Mennulla e Aranci”, che consta di due brani: il primo, che dà il titolo all’EP, si fa ricordare per gli affascinanti influssi mediorientali e il secondo, “Ciatu”, è una canzone d’amore sotto forma di blues rurale.
Sempre nel 2018 l’attività live (che dall’Ovunque in Sicilia tour in poi si è fatta sempre più nomade e instancabile) porta Cesare e i Caminanti a togliersi la soddisfazione di portare la propria peculiarissima proposta davanti a un palco importante come quello del Primavera Sound Festival di Barcellona:
e infine durante l’estate viene diffusa “Capitano (fangu, rifardu e Ganu senza onuri)”, instant-song indirizzata al leader della Lega Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’interno della Repubblica Italiana. Si tratta di uno spoken words o, per dirla con l’autore, di “un’invettiva alla catanese”, che senza mezzi termini mette in guardia chi semina odio perché “l’odio, capitano, è bestia strana: non è una testolina che si alliscia… e l’odio sale rapido e all’improvviso gli schiaccia la testa alla serpe, mentre striscia”:
E’ storia recente la pubblicazione dell’undicesimo disco di Cesare Basile intitolato “Cummeddia”. Il disco è stato prodotto da Cesare e arrangiato assieme a Massimo Ferrarotto alle percussioni, Sara Ardizzoni alle chitarre, Luca Recchia al basso, Hugo Race alle tastiere, Gino Robair alle percussioni e a elettronica varia, Alfio Antico si è occupato dei tamburi a cornice e infine Vera Di Lecce ha suonato le percussioni, cantato, ma soprattutto si è occupata di arrangiare gli straordinari cori femminili che impreziosiscono tutto il lavoro.
Proseguendo il gioco del rovesciamento della prospettiva operato per “U Fujutu”, siamo di fronte a un nuovo passaggio. Dopo l’immersione nella grammatica compositiva popolare che aveva finito quasi per sbiadire le influenze rock, “Cummeddia” recupera un’anima più elettrica e riesce a bilanciare ancor meglio l’acquisita padronanza lessicale, armonica e melodica della canzone siciliana con tutta l’esperienza precedente alla svolta popolare.
Fatta questa premessa, a colpire è soprattutto la ritrovata attenzione che Cesare riserva allo studio di registrazione come “strumento”. Dopo una serie di lavori che sembravano avere l’intenzione di catturare la furiosa intensità dell’esibizioni live, Cesare torna a innamorarsi delle possibilità che lo studio di registrazione offre, al punto che in “Cummeddia” firma la sua migliore produzione dai tempi di “Closet Meraviglia” ed “Hellequin song”. Il suono si presenta come meno scheletrico ed asciutto, l’ambiente sonoro in cui si muovono gli strumenti pare mosso da un moto ondoso che sembra sospingere alternativamente, ora in primo piano, ora in secondo, i singoli strumenti. Un’attenzione all’aspetto produttivo che si esalta anche nella straordinaria capacità di arrangiare i singoli pezzi e nell’equilibrio fra il cantato asciutto di Cesare e il lirismo dei cori femminili di cui si è già detto.
Ma la musica di un cantatore è fatta soprattutto di canzoni e, a questo nuovo giro, Cesare sembra aver ritrovato la sua forma migliore: il livello della scrittura è altissimo e senza alcun momento di stanca lungo tutto il lavoro. Magari è presto per descrivere il disco come nuovo capolavoro, ma di certo si tratta di un lavoro memorabile, così come messo in chiaro fin dall’incipit di “Mala la terra”, che introduce lo spettacolo con chitarre elettrificate che dialogano su scale africane, mentre le linee vocali – che alternano la voce di Cesare al coro femminile – attaccano la terra, che si presenta come patria ogni volta in cui chiede all’uomo il sacrificio; “L’arvulu rossu”, rievoca – tra acustiche sovrapposte, un continuo formicolio di chitarre e una melodia ariosa – la guerra che nel 1939 il questore di Catania Molina ingaggiò “a scudo della razza” contro gli omosessuali catanesi:
“E sugnu talianu” parte con una chitarra che si muove tra disturbi vari di elettronica, mentre Cesare – dal suo osservatorio distaccato di siciliano divenuto italiano – guarda un mondo in cui “non c’è più che fare/ siamo nelle mani di tanti traditori/ non puoi sapere da chi guardarti/ non c’è pietà, amico e neanche onore”. Il brano si riferisce al senso di smarrimento dei siciliani divenuti italiani al tempo dell’Unità ed è tratto da un testo di Giuseppe Cutello inserito in un libro di Antonino Uccello; “La curannera” è un altro episodio formicolante, la cui melodia sinuosa alterna voce maschile e coro femminile su un tappeto di groove sfuggente e cavernoso; “Setti venniri zuppiddi” poggia su una eccezionale riff suonato da una slide secca che pare scivolare sul legno e sul ferro. L’ambiente sonoro si muove instancabile tra sintetizzatori, fiati e corde: un fondale onirico e misterioso come certe profondità marine; simili a quelle in cui è ambientata la canzone che, citando il Pirandello di “Favola del figlio cambiato” e il mito delle “donne di notte”, narra una storia fascinosa e terrificante come solo certi sogni possono essere; “La naca ri l’anniati” è una ninnananna che assomma elettriche, cori di sirena e – ancora – atmosfere oniriche. Tratta dai canti di Natale dei pastori siciliani, immagina la culla di Gesù, precipitata giù in fondo al mare, come i tanti bambini migranti morti nel mediterraneo; “Chiurma limusinanti”, liberamente tratta da “Il Popolo dell’abisso” di Jack London, presenta chitarre che si rincorrono per costruire una ragnatela etnica simile a certe cose di De André altezza “Jamin-a”, ma suonata alla velocità suggerita da una mai sopita attitudine rock. Quel che colpisce è l’interpretazione di Cesare, la rabbia e l’imperio profuso, grazie anche a un testo eccezionale: anche se non conoscete il siciliano, provate ad assaporarne ogni singolo vocabolo e la maniera in cui ogni sillaba morde la nota su cui è appoggiata. L’idea che riceverete è quella di un’arrembante e apocalittica resa dei conti presentata dall’armata dei pezzenti, venuta a chieder conto di tutta la miseria in cui è costretta l’umanità; “Cummeddia” crea un’oasi di sospensione in cui il violino dell’ospite Rodrigo D’Erasmo infioretta la delicata melodia condotta stancamente da Cesare, mentre la chitarra di Sara Ardizzoni (vero valore aggiunto del disco, nonché ennesima conferma del talento di Cesare nel circondarsi di musicisti di assoluto talento) si ritaglia uno spazio lirico, saturo di blues, grazie a poche sceltissime note:
Cometa da dove vieni? cosa ci racconti? che succede?
e dove te ne vai? e cosa ci lasceresti?
ci lasci la peste che dorme nei cassetti, mentre io la cerco fuori
c’è sempre un’ora in cui l’uomo si scopre essere vile
di quest’ora ho paura e non di quello che si vede
dove sei finita e come ci siamo finiti in questo esilio, regno di terrore?
Amore, amore, svegliati che passa la cometa
guarda i bambini come sciolgono la matassa
amore, amore, svegliati che in cielo non c’è pace e già soffia il vento
“Chitarra rispittusa” parte con il vibrato siciliano della voce di Cesare che si accompagna allo Djeli ‘ngoni e si chiude con una coda fascinosa poggiata sul solito intreccio di chitarre e cori femminili; “Cchi voli riri?” ritrova Hugo Race alle chitarre e Rodrigo D’Erasmo al violino, con Cesare che si lancia in un recitato con cui – sotto forma di sogno (o meglio di incubo) – si racconta il fine ultimo della peste diffusa dal moderno mondo produttivista: quello di rendere sempre più ipertrofico l’io dell’umanità fino a renderla una novella Torre di Babele, destinata a una apocalittica autodistruzione; chiude il programma “Mina lu ventu” che, impreziosita dalla lapsteel box di Roberto Angelini, congeda tutti sottovoce, mentre un groove sotterraneo culla verso un sonno ristoratore e materno.
Album sinistro che parla di peste e di un’apocalisse che è già arrivata a livello sociale e culturale e che serpeggia indisturbata tra uomini disattenti. Un disco che però, ancora una volta, vuol sollevare dalla miserie quotidiane con l’unica arma su cui un artista può contare per smuovere dal torpore e spingere alla riflessione e al pensiero differente: la bellezza.
Davvero, difficile fare meglio.
EPILOGO
Il percorso tracciato in questo lungo articolo voleva innanzitutto rendere giustizia, prima ancora che alla musica (che non ha certo bisogno di parole), a un percorso umano ed artistico che mi è parso da subito sincero e appassionante, avendo avuto il privilegio di seguire in tempo reale. Comunque la pensiate sulle idee di Cesare Basile, che così tanta influenza hanno avuto e avranno in futuro sulla sua musica, dubito si possa restare indifferenti nei confronti della totale adesione tra arte e vita che questo ragazzo di Catania ha perseguito in ogni sua esperienza e scelta, ottenendo in cambio la materia più ambita in ambito artistico: la sincerità.
Nell’introduzione dicevo che abbiamo bisogno di artisti puri che siano di sollievo alla nostra vita compromessa. Come amiamo gli artisti maledetti che soffrono al nostro posto, così ci piace accarezzare i nostri santini integerrimi. Beh, da quel che so io, non si fa mai un buon servizio a qualcuno quando lo si idealizza, così come so che in natura esiste ben poco di puro.
Per quanto mi riguarda, dunque, proseguirò a seguire le mosse di Cesare Basile e le sovrapporrò al mio Cesare Basile, quello di cui vi ho raccontato in queste pagine.
L’ultima volta che l’ho visto mi trovavo anch’io a Catania. Era notte già da un pezzo e lui si aggirava in piazza Carlo Alberto, fra i resti maleodoranti del mercato che la piazza ospita durante il giorno. Indossava una maglietta nera dei Crass e in mano aveva un sigaro che da dove mi trovavo sembrava spento. Poco lontano dalla piazza, assiso in mezzo al Duomo, il Liotru, la cavalcatura di Eliodoro, gettava il suo incantesimo di influenza sulla città. Cesare pareva immune da ogni sortilegio… guardava piuttosto verso un punto lontano e imprecisato.
Poi mi sono accorto che i suoi occhi erano chiusi e che tutto il suo corpo stava come per accordarsi a una vibrazione ancora più antica e autentica.
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