Può sembrare una domanda dalla risposta scontata, ma ogni tanto a me capita davvero di chiedermi a chi appartengono veramente le canzoni. Ok, se è vero che ce ne sono alcune legate indissolubilmente al proprio autore e primo esecutore, come ad esempio “Blowin’ in the Wind” che, nonostante sia stata sventolata come una bandiera da Joan Baez o incendiata da Neil Young, rimarrà per sempre una canzone di Bob Dylan, altre volte capita che il marchio venga impresso da chi quella canzone l’ha solo composta, rendendo del tutto superflua l’identità dell’interprete: a chi interessa sapere chi canti “Raindrops keep fallin’ on my head”? È semplicemente una canzone di Burt Bacharach! Altre volte ancora un brano può diventare dell’interprete e ciò anche quando il vero autore sia un artista di grande caratura. Un esempio lampante è la dylaniana “All along the watchtower” suonata da Jimi Hendrix. in questo caso è stato l’interprete più dell’autore a crescere il brano come figlio proprio, strappandolo per diritto al padre naturale e divenendone infine il vero e proprio padre adottivo riconosciuto da tutti.
Poi ci sono i casi più interessanti per il nostro quesito ovvero quelle canzoni la cui paternità si perde nel tempo e che nel tempo sono divenute di pubblico dominio o meglio ancora: patrimonio dell’umanità. Si tratta ad esempio di una dinamica tipica del folk, dove spesso la paternità è già sfumata in partenza. Credo non vi sia incarnazione migliore per rappresentare questa categoria di “We shall overcome”, brano le cui origini si perdono nella tradizione gospel, fino a quando Pete Seeger non decide di farla sua e, con delle piccole modifiche, la fa diventare l’inno universale e il simbolo della lotta per i diritti umani.
Questo tipo di considerazioni mi hanno spinto a interrogarmi circa il destino delle nostre canzoni e, più in generale, in merito al rapporto tra il rock e il futuro che verrà. Insomma: cosa succederà alle canzoni del nostro tempo? Brani come “Blowin’ in the Wind” o “Born to run”, per citare un altro inno del popolo rock, fra 100 anni saranno dimenticati? Esposti in un museo come retaggio di un secolo ormai lontano? Verranno custodite come reliquie da pochi seguaci di un culto o seguiranno il percorso di “We shall overcome”, divenendo patrimonio dell’umanità? Ovviamente la risposta non la conosciamo (e dubito soffi nel vento…), ma sono tuttavia convinto che esistono canzoni randagie che fin da subito, per natura e caratteristiche proprie, sembrano nate per restare senza padrone e diventare di proprietà della collettività.
É questo il pensiero che mi ha colto qualche giorno fa, quando ho riascoltato per l’ennesima volta “Morning Dew” in una delle sue tante interpretazioni.
Non me ne voglia la povera Bonnie Dobson, che scrisse il brano nel ‘61, ma di fatto questa canzone è già sfuggita dalle mani della sua creatrice per affidarsi a un abbraccio comunitario.
Certo, sicuramente il fatto che la canzone non sia stata scritta da un autore noto o di peso avrà avuto la sua importanza, ma ritengo ci sia qualcosa nel nucleo di questo brano che l’ha resa fin da subito una canzone “popolare” (nel senso letterale di “del popolo”). E questo “qualcosa” a mio avviso è rappresentato dall’afflato universale che attraversa il brano in ogni sua incarnazione e, vi assicuro che – come vedremo – questa canzone di incarnazioni ne ha avute parecchie!
E’ fuori di dubbio che uno dei fenomeni sociali che più ha caratterizzato la società, dal ventesimo secolo in avanti, sia stato quello della massificazione: consenso di massa sfociato in dittature, mass media che generano convinzioni di massa, isterie di massa e paure di massa come, ad esempio, l’incubo collettivo dell’olocausto nucleare.
Proprio di quest’ultima paura parla “Morning Dew”. La canzone narra una storia ambientata in un futuro post-apocalittico ed è strutturata sotto forma di dialogo tra una coppia sopravvissuta: la donna chiede all’uomo di portarla fuori nella rugiada del mattino, ma l’uomo risponde che non può farlo. La donna dice di aver sentito dei bambini piangere e dei giovani lamentarsi, ma l’uomo – non sappiamo se per rincuorarla o forse perché le voci si trovano solo nella mente della donna – le dice che non può averli sentiti e che non deve preoccuparsi delle persone perché non le vedrà mai più. Infine all’ennesima richiesta l’uomo acconsente amaramente ad accompagnarla fuori, perché tanto ormai niente ha più importanza.
Come da tradizione della musica popolare, la canzone ha subito nel tempo diverse modifiche, come ad esempio è il caso del cantautore Tim Rose che nel ‘67 ne pubblicò una trascinante versione con delle variazioni che gli valsero la co-titolaritá dei credits. La versione di Rose modifica la strofa finale, rimarcando tristemente che si é avverato ciò di cui si aveva terrore e ora non c’è più alcuna rugiada. Molte riletture partiranno in realtà da questa versione.
Tornando al testo del brano, risulta particolarmente azzeccata ed evocativa la scelta dell’immagine della rugiada mattutina che simboleggia madre natura e incarna il contrasto tra la vita che diventa morte per mano dell’uomo e dona al brano drammaticità e al contempo una profonda umanità. Ecco dunque emergere l’identità popolare del brano, capace di esprimere attraverso l’ottica dei singoli un sentimento collettivo, come la paura del conflitto nucleare, cifra distintiva dei decenni caratterizzati dalla cosiddetta guerra fredda.
Ma se una delle peculiarità della canzone tradizionale è quella di aiutarci a capire il presente, guardando al passato, allora che lezione possiamo trarre da “Morning Dew”? Se oggi la paura della bomba atomica non è più all’ordine del giorno (anche se con Trump, Putin, Kim e l’Iran qualche dubbio potrebbe venire…), una delle questioni che più ci rendono inquieti per il futuro è quella della catastrofe ambientale dovuta ai cambiamenti climatici. In fondo le analogie tra le due paure sono parecchie dato che entrambe ci raccontano di una natura divenuta tossica e portatrice di morte a causa dell’avidità economica e di potere dell’uomo e della sua ottusità. Per questo “Morning Dew” è una canzone che ancora oggi (e vista la natura umana forse lo sarà sempre….) rappresenta un forte monito per il futuro.
Dopo aver parlato del “cosa” proviamo a parlare del “come”; essendo una canzone che ha subito molte (re)interpretazioni è interessante vedere come i diversi artisti siano riusciti a sviscerare dal nucleo della canzone caratteristiche, accenti, emozioni o sentimenti differenti.
Prima di tutto mi pare doveroso omaggiare Bonnie Dobson, l’autrice originale, la cui versione è senz’altro e paradossalmente tra le meno note.
La prima pubblicazione del brano è una versione live del 1962 e va ricordata perché testimonianza di quella gloriosa e importante tradizione rappresentata dalla canzone di protesta del movimento folk, che si intrecciava profondamente con l’attivismo politico e sociale. E’ interessante notare come i versi siano leggermente diversi da quelli ufficiali (in particolare la rugiada diventa sole nella ripetizione del verso iniziale). Come da prassi, l’interpretazione della Dobson viene eseguita con il solo accompagnamento della chitarra e la sua voce squillante si pone in continuità con le tipiche voci femminili della canzone popolare di quegli anni come quella di Joan Baez e sorella (Mimi Fariña) o di Mary Travers (di Peter, Paul & Mary). Il brano aveva tutte le carte in regola per diventare un inno del movimento, ma sappiamo che così non fu. Questa segnalazione quindi vuole essere solo una misera compensazione per il suo contributo artistico (speriamo che almeno le royalties non le siano mancate…).
Per rimarcare l’anima folk e universale del brano non si può non ricordare la delicatissima versione versione degli irlandesi Clannad, che vestono il brano di un manto fatato che lo fa sembrare in tutto e per tutto una canzone tradizionale britannica. E in fondo sembra quasi un sogno….
Tim Rose non fu l’unico né il primo a modificare la canzone originale. I bizzarri tipi della West Coast Pop Art Experimental Band, oltre a cambiare radicalmente la musica e in maniera minore il testo, ne cambiarono anche il titolo in “Will You Walk With Me”, condividendo i credits con la Dobson. La loro versione è una perla di soffice psichedelia pop, avvolta da gentili orchestrazioni. Non credo ci sia interpretazione migliore del brano per esprimere la dolcezza che traspare dall’amorevole rapporto esistente tra l’ultima coppia dell’umanità, sorta di Adamo ed Eva al contrario.
Il primo Jeff Beck Group è stato (purtroppo per un periodo molto breve) uno dei gruppi rock migliori sulla faccia della terra, una vera e propria macchina da guerra sonora che si ricorda in particolare per la fulminante chitarra del leader e per la voce leonina del giovane Rod Stewart. Non bisogna però dimenticare il basso potente di Ron Wood e il piano scintillante del fuoriclasse Nicky Hopkins. Tutto questo per dire che in pochi avrebbero saputo esprimere al meglio, utilizzando la carica e l’energia selvaggia del rock di quegli anni, il sentimento di rabbia che il possibile futuro dipinto dalla canzone porta con sé. Una rabbia che, presente o meno nelle intenzioni dell’autrice, in questa versione viene fuori come qualcosa di naturalmente intrinseco al brano:
Il Robert Plant della maturità nel suo ispiratissimo album di cover “Dreamland” propone invece una versione spettrale e sinistra con echi psichedelici che ci consentono di immedesimarci nei protagonisti. Riusciamo a intuire la loro paura e la loro insicurezza di fronte a un futuro che pare sgretolarglisi davanti. La parte finale con il verso “no no no, no more” ripetuto come un mantra chiude una versione da brividi, lasciando apparentemente in sospeso un finale in realtà già tristemente scritto.
Se pensiamo all’ambientazione del brano, chi meglio degli Einsturzende Neubauten poteva ricrearne il clima apocalittico? Per fortuna Blixa Bargeld e soci non ci hanno fatto mancare il loro contributo e ovviamente con la consueta originalità. La loro versione è una sorta di western post-atomico caratterizzato da una minacciosa slide guitar e da improvvisi esplosioni percussive sulle quali troneggia il vocione inquietante di Blixa. Imperdibile!
E infine non potevamo non parlare della versione dei Grateful Dead (anzi delle versioni, visto che le improvvisazioni tipiche del gruppo caratterizzano in maniera sempre diversa ogni esecuzione live del brano) . La band di San Francisco d’altronde è forse quella che ha dato maggior popolarità al brano. I californiani, partendo dalla versione della Dobson, trasformano la canzone in una ballata dilatata dove Jerry Garcia – con la sua voce acidula, non canonicamente bella ma piena di feeling – rende al meglio il sentimento di estremo dolore dei due protagonisti. Il brano procede in crescendo fino a sfociare in un assolo che ci conduce all’ultima strofa. Il verso finale “I guess it doesn’t matter anyway”, sul quale Garcia indugia più volte, con partecipazione sempre maggiore, crea un pathos toccante dal quale fiorisce l’assolo di Jerry che nella sua maestosità (sempre diversa di versione in versione) esprime un’intensa empatia nei confronti dell’ultimo uomo e dell’ultima donna, ma anche una bellezza capace di cavalcare l’ambiguità del finale del brano fino a donargli un significato ancora una volta differente: gli ultimi rappresentanti dell’umanità escono nella rugiada mattutina, non solo perché ormai nulla importa più, ma anche perché la vita è comunque fatta per essere vissuta… anche per quel poco che resta. Non importa più morire, ma (o perché) importa vivere.
PORTAMI FUORI FRA LA RUGIADA DEL MATTINO
Portami fuori fra la rugiada del mattino, amore
Portami fuori fra la rugiada del mattino, oggi
Non posso portarti fuori fra la rugiada del mattino amore
Non posso portarti fuori fra la rugiada del mattino oggi.
Pensavo di aver sentito un bambino piangere stamattina
Pensavo di aver sentito un bambino piangere oggi
Non hai sentito alcun bambino piangere stamattina
Non hai sentito alcun bambino piangere oggi.
Dove sono andati tutti, amore mio
Dove sono andati tutti, oggi
Non ti preoccupare per tutte queste persone
Non le vedrai mai più comunque
Credevo di aver sentito un giovane uomo lamentarsi stamattina
Credevo di aver sentito un giovane uomo lamentarsi oggi
Credevo di aver sentito un giovane uomo lamentarsi stamattina
Non ti posso portare fuori fra la rugiada del mattino oggi
Portami fuori fra la rugiada del mattino amore mio
Portami fuori fra la rugiada del mattino oggi
Ti porterò fuori fra la rugiada del mattino amore mio
Credo che non importi nulla davvero ormai…
Bella riflessione sulla sorte delle nostre canzoni rock (nel senso più ampio del termine) preferite! Forse davvero fra cent’anni potrebbe rimanere solo qualche nuova e bizzarra interpretazione, perdendo via via il contatto con la versione originale… Sarebbe certamente spaventoso, ed allo stesso tempo potrebbe essere l’ultima carta che il rock si giocherebbe per restare immortale…
Innanzitutto un grazie da Charles a Charles per le belle parole… Io spero vivamente che le “nostre” canzoni saranno capaci di parlare alle nuove generazioni lasciandosi modificare, reinventare e trasformare senza perdere la propria anima come è accaduto da sempre nella musica. In fondo significherebbe che la forza e bellezza che ha conquistato noi ha un nucleo solido e senza tempo, capace di trasmettere anche a chi ci seguirà quell’afflato universale di cui parlo nel pezzo. La forma poi è solo un veicolo, un contenitore, destinato a mutare nel tempo e a farsi plasmare dal contenuto. Faccio di nuovo riferimento a”we shall overcome” e al suo percorso “formale” ; una canzone gospel quindi del popolo afroamericano, ripreso e reso popolare da uno dei nemici-sfruttatori, un cantante folk bianco fino a diventare l’inno al quale marciano tutti insieme per i diritti umani. Cosa c’è di più bello e universale?