AVVERTENZA: questa non è una monografia, questa è una lettera d’amore. È fortemente sconsigliata la lettura a chi pensi di trovarvi obiettività e affermazioni equilibrate e a chiunque abbia paura della faziosità!

Sì, io amo Neil Percival Young da Toronto, Canada. E chi se ne frega direte voi!

E invece dovrebbe interessarvi perlomeno se amate il rock’n’roll… Sì, perchè quest’uomo è l’incarnazione vivente e autentica del rock’n’roll. Voi mi direte: un attimo, ma Keith Richards? E’ chiaro il buon Keith rimane un’inimitabile e insuperabile icona dello stile di vita R’n’R ma, almeno per l’idea che ho io di questa musica, non è sufficiente andare in giro per il mondo a suonare sempre la stessa, seppur epocale, roba ma bisogna anche essere vivi artisticamente (e alzi la mano chi si ricorda un disco memorabile degli stones negli ultimi 30 anni o giù di lì….). Nello invece è ancora lì e, al di là dei risultati diciamo così altalenanti, non sembra avere nessuna intenzione di mollare.

Neil Young sta in giro da parecchio tempo. Ha avuto tante vite e a ognuna di esse è coinciso un diverso rapporto con i propri fedeli: è stato prima fratello maggiore, fragile ma capace di dare forza perché in fondo “sono solo castelli che bruciano”; è stato padre, anticipatore, ispiratore e compagno di avventure per una nuova generazione di rockettari e infine nonno, un vecchietto arzillo che non vuole arrendersi combinandone una ogni giorno, qualche volta buona o più spesso disastrosa ma al quale non puoi smettere di voler bene.

Eh già il punto è proprio questo: non ci si può proprio non affezionare a Neil Young.

Il legame con lui va oltre a quello con l’artista e diventa semplicemente umano affetto.

Pensateci: con quali altre leggende del rock può accadere questo?

Non chiedetemi ad esempio di fare a meno della musica di Bob Dylan, ma all’uomo e alla sua alterigia, ai limiti del disprezzo puro nei confronti del pubblico, posso certamente rinunciare. Non riesco poi a immaginare cosa sarebbe stato della mia vita senza la musica di Lou Reed (vedi qui) ma certamente il legame tra lui e il pubblico è sempre stato caratterizzato più dalla provocazione intellettuale che dall’empatia. Il vecchio Neil invece è un personaggio imprevedibile e scostante ma assolutamente spontaneo. E appare quasi inevitabile appassionarsi, nel vero senso della parola, al suo percorso umano e artistico, due aspetti intrinsecamente e intimamente legati in maniera indissolubile.

Ma si diceva del Rock n Roll… una musica che nel corso degli anni è diventata colta con Dylan, poetica con Jim Morrison, intellettuale con Lou Reed. Ecco, il contributo dato da Neil Young alla nostra musica preferita è certo non meno fondamentale, perché il vecchio Nello con la sua musica e più ancora con la propria esistenza e le proprie scelte artistiche ha incarnato – da sempre e forse come mai nessuno prima e dopo di lui – una delle sue componenti fondamentali: l’istinto. Parliamo d’altronde di un musicista che non possiede certo una gran voce, né può vantare una gran tecnica chitarristica, ma che ha fatto di queste debolezze dei punti di forza capaci addirittura di ispirare legioni di imitatori grazie alla propria visceralità e a una forza vitale che contraddistingue ogni sua espressione artistica e umana. E se certi suoi colleghi possono contare su un talento poetico superiore, in pochi sono riusciti a cantare il dolore come il canadese che ad esempio oltre a comporre due inni immarcescibili come “Hey Hey My My” e “Rockin’ In The Free World”, ha saputo piangere un “fratello” (Danny Whitten) prima e un “figlio” (Kurt Cobain) poi con un’intensità difficilmente replicabile.

La sua discografia ampia, variegata e piena di alti e bassi non poteva che essere lo specchio dell’uomo e dell’artista; tutto in Neil Young è interconnesso e inscindibile ed è quindi possibile trovare le qualità principali della sua musica o le origini di lavori maggiori anche in lavori considerati minori o addirittura brutti. Non troverete nella sua discografia dischi pubblicati per onor di firma come “Empire Burlesque” di Dylan o “Mistrial” di Reed… questo perché nei suoi lavori, anche in quelli scadenti, si può sempre cogliere un motivo, un’idea ma soprattutto una buona intenzione. Qualunque sia il progetto, che si tratti di un capolavoro con i Crazy Horse o di un imbarazzante lavoro inciso in una cabina telefonica, vi troverete sempre dentro un artista il cui fine è dare il meglio di sè al pubblico anche quando le sue scelte (e accade spesso) sono imperscrutabili.

Questo articolo dunque si propone di cogliere l’essenza del musicista canadese tramite un’analisi dei suoi lavori poco ascoltati e conosciuti perchè meno riusciti o persino brutti. Si, brutti. Non vi è alcun intento revisionista: certi dischi di Neil Young sono brutti senza appello, ma questo non vuol dire che non siano interessanti. Tutt’altro: spesso lasciano trapelare cose dell’uomo e del musicista che magari i lavori maggiori nascondono dietro la loro bellezza innaturale. E poi in fondo è facile essere fedeli nei momenti di felicità… il vero amore invece si vede nei momenti difficili e bui e forse ve l’ho già detto ma… io amo Neil Young!

Anni 60 – Omonimo: The Loner
Per un artista, il debutto è certamente un momento decisivo e Neil Young partì decisamente con il piede sbagliato. Le aspettative derivanti dalla sua militanza nei Buffalo Springfield erano alte e il fallimento del disco d’esordio avrebbe potuto spezzare le gambe alla maggior parte degli artisti, ma non a un indomito testardo come Neil, che anzi probabilmente proprio dagli errori contenuti nel proprio esordio ha tratto le lezioni necessarie per dare realmente inizio alla sua inimitabile carriera.

Ma quindi cosa c’è in “Neil Young” che non va? Si tratta di un lavoro che fa quasi tenerezza, opera prima di un giovane cantautore timido e indifeso che sente per la prima volta interamente su di sé il peso del risultato artistico. E questa responsabilità, probabilmente unita alla mancanza di un compagno/antagonista come Stephen Stills, provoca in lui un’inedita insicurezza. Neil sembra più preoccupato di nascondere la propria inadeguatezza dietro a un suono gonfio e caratterizzato da arrangiamenti eccessivi che di mettere in mostra le proprie capacità, al punto che che nella prima edizione del disco la voce (probabilmente quello che Young considerava il suo vero punto debole) veniva mixata a un livello talmente basso da essere soverchiata dalla parte strumentale.

Indicativo in tal senso è il primo brano del disco, dove addirittura la voce non c’è: un country orchestrale e kitsch talmente improbabile e quasi ridicolo che probabilmente non ci stupiremmo di trovare oggi in uno dei mille strambi progetti di nonno Neil ma che certo non ci saremmo aspettati in un suo disco degli anni 60.

La stoffa però c’era già e pure di qualità sopraffina come dimostrano due brani che possiamo definire come i prototipi delle due facce di Neil Young: il rock elettrico e il cantautorato acustico. “The Loner”, talmente iconica da diventare anche il soprannome del canadese, oltre a far ascoltare per la prima volta “QUEL” suono di chitarra, mostra l’aspetto più ispido della musica del canadese, nonostante venga depotenziato da un arrangiamento tronfio. “The Old Laughing Lady” pur se deturpata da inspiegabili orchestrazioni e deviazioni gospel invece riesce a far emergere quella vena melodica intima e la nostalgia dolce amara così tipica dell’autore.

É però il brano finale il punto focale dell’album e forse il suo primo capolavoro: nei 9 minuti intimi e trascinanti di “Last Trip To Tulsa” troviamo uno young che, solo con la propria chitarra, riesce a esprimere tutto il proprio talento. Finalmente libero da inutili orpelli imbocca la strada che lo porta a non avere più paura di essere sé stesso, a essere quello con la vocina stridula, quello che tira il collo alle corde della sua chitarra, quello senza mezze misure e spesso scostante o esagerato.

The Last Trip to Tulsa (2009 Remaster)

Mi piace pensare insomma che grazie all’esperienza del primo album, Young abbia capito che la sua forza risiedesse proprio in quelle presunte debolezze che aveva cercato di nascondere sotto una coltre di suoni e che da lì in avanti mostrerà senza remore. Con il rischio di sbagliare, magari… ma, fanculo!, sarebbe stato l’unico artefice sia dei propri successi che dei propri fallimenti.

Ora mancava quindi solo il giusto accompagnamento. E cosa c’è di più adatto per un solitario che farsi accompagnare da un cavallo pazzo?

Anni 70 – Time Fade Away: The Bridge
E chi avrebbe detto dopo lo sfortunato esordio che gli accordi sferraglianti di “Cowgirl In the Sand” sarebbero stati solo l’inizio di una sequenza indimenticabile e quasi perfetta che da Everybody arriva fino a “Zuma” (e dopo un paio di episodi meno a fuoco a “Rust Never Sleeps”)?

Ma anche nelle corse più sfrenate occorre fermarsi per tirare il fiato e fare il punto della situazione. Perché in fondo il canadese non aveva mai rallentato; dopo la rinascita all’insegna dell’asprezza con i Crazy Horse, Nello aveva mostrato la sua vena più malinconica con una dei suoi capolavori “After The Goldrush” e infine il suo volto più melodico con le atmosfere bucoliche di “Harvest”. Disco che cambia le regole del gioco, facendolo diventare definitivamente una superstar. Se fino a quel momento Neil non aveva fatto altro che seguire il flusso della propria ispirazione, adesso era giunto il momento di guardarsi allo specchio per capire cosa era diventato e domandarsi come fare per dare seguito a un best seller planetario.

La risposta younghiana fu come (quasi) sempre la più semplice: seguire la propria strada per non perdersi ed essere ancora e sempre Neil Young piuttosto che l’autore di “Harvest”.

Messa in piedi una band con i musicisti di “Harvest”, decide quindi di aggiungere una serie di canzoni inedite e che registrate dal vivo avrebbero poi costituito il nuovo album. Questa decisione potrebbe sembrare una mancanza di rispetto nei confronti del pubblico, ma invece rappresenta a mio avviso una evidente dimostrazione della lealtà che lega il musicista ai propri ascoltatori ai quali sembra dire: i vecchi successi sono già il passato ed io non sono un juke-box in cui inserire la vostra monetina, se volete onestà, vi toccherà ascoltare questi brani che rappresentano la fotografia di quello che sono adesso, ovvero un uomo inquieto incapace di fermarsi. Siamo alle solite, Neil è uno vero, nel bene e nel male. Non vi piace? prego l’uscita è da questa parte, di cantautori e rocker è pieno il mondo…

Eccolo, dunque, il Nello anticonformista e bastian contrario che riafferma se stesso e si mantiene vivo ostinandosi a nuotare controcorrente e a fare l’opposto di ciò che il buon senso consiglierebbe.

A tutto ciò dobbiamo aggiungere i dissapori con la band, il malessere che aveva colto il musicista dopo il successo planetario di “Harvest” per finire con il drammatico episodio che non solo condizionerà il destino del tour e del disco, ma che costituirà per il canadese motivo di rimpianto e occasione di senso di colpa per tutta la vita. Parliamo della morte per overdose di Danny Whitten, amico di Young e membro dei Crazy Horse, avvenuta proprio il giorno dopo essere stato mandato a casa perchè ritenuto palesemente non in grado di suonare,

La tournee partì lo stesso ma andò avanti tra mille difficoltà interpersonali e uno Young che affogava i propri sensi di colpa nella Tequila. Cosa poteva uscire quindi da una situazione del genere?

Un disco diseguale e minore, dolente e opaco… eppure importante perchè costrinse Nello a fronteggiare da un lato la propria condizione di superstar e le grandi arene del tour più imponente della sua vita, dall’altro la paura di smarrirsi e i sensi di colpa per la perdita di Whitten. Ciò lo portò a una scelta. Per usare le sue parole decise di fuggire dal centro della strada sulla quale l’aveva portato “Harvest” e di dirigersi volontariamente dritto nel fosso. Ed è proprio questa deviazione dalla rotta sicura che lo porterà a due dei suoi massimi capolavori “Tonight’s The Night“ e “On The Beach“.

“Time Fades Away” ha quindi un sapore di prova generale, di ponte tra il Neil Young pubblico e quello ripiegato nel privato. Pur essendo inferiore ai dischi appena citati contiene numerose perle che sono relativamente poco note solo perchè lo standard di Neil Young negli anni 70 è straordinariamente alto.

Lo stesso canadese ci ha poi messo del suo rifiutandosi di ripubblicarlo fino a un paio di anni fa perchè troppo legato a dolorosi ricordi (e non poteva essere altrimenti) che ne fanno il disco meno amato dal suo autore.

Per una volta però non dategli retta e dirigetevi anche voi dentro a quel fosso a farvi cullare dalla dolente trilogia di piano e voce di “Journey Through The Past”, ”Love In Mind” e ”The Bridge” e scuotere dalla sincerità elettrica di ”L.A.” e ”Don’t Be Denied”. Probabilmente vi chiederete che meraviglia sarebbe venuta fuori da “The Last Dance” se l’avesse data in pasto al cavallo pazzo ma vi affezionerete, eccome se vi affezionerete a “Time Fades Away”, parola di innamorato!

Love in Mind (Live at Royce Hall, Los Angeles, California, 1/30/1971) (2016 Remaster)

Anni 80 – Trans: Transformer Man
Probabilmente è inutile da dire, ma gli anni 80 di Neil Young furono l’esatto opposto dei 70. In quegli anni il canadese sembrava infatti diventato un Re Mida al contrario. Eppure ancora una volta Nello risulta difficile da inquadrare nella sua “semplice complessità”. Non si può infatti imputare il drammatico calo qualitativo del decennio solamente a una semplice mancanza d’ispirazione ma va valutato nel complesso della sua situazione di vita dell’epoca.
Nello scegliere quindi un’opera minore su cui focalizzarsi é importante non fermarsi all’aspetto musicale ma leggere fra le righe di scelte artistiche spesso decisamente sconcertanti e quasi sempre fallimentari.

E il disco sul quale voglio soffermarmi é “Trans”, ovvero quello che molto probabilmente è il disco più odiato dai fan di Young. Lo dico subito: come accennato prima, non c’è alcun intento revisionista, Trans é semplicemente un disco brutto. Molto brutto. Per chi non lo sapesse, si tratta di un improbabile avventura di Young con sintetizzatori e vocoder, una specie di “cantautorato robotico” che suona ridicolo tanto quanto questa definizione. L’importanza del disco va ricercata però nella motivazione che portò Nello ad affrontare questa perigliosa impresa: “Trans” é infatti un disco d’amore, non per sua moglie Pegi o un’altra donna ma per il figlio disabile.

Young stava vivendo un periodo difficile e drammatico proprio a causa dei problemi connaturati alla cura del figlio e aveva cominciato a interessarsi alle nuove tecnologie dell’epoca perché intravedeva in esse un possibile mezzo per comunicare con lui. Ovviamente questo interesse non poteva che sfociare nella musica. Neil si cimentò nella fusione tra vecchio e nuovo con gli stessi pregi e difetti di sempre. Nella sua decisione di fare tutto da solo e non cercare aiuti esterni magari più avvezzi a quelle tecnologie possiamo ritrovare il solito contagioso entusiasmo, ma anche la solita testardaggine. Insomma quella sorta di approccio da eterno fanciullo che da sempre gli ha portato gloria ma anche rovina.

Ma in fondo chi se ne frega del risultato? Di fronte a una motivazione così profonda e toccante possiamo (o dobbiamo?) chiudere le orecchie e aprire il cuore.
Provate quindi ora ad ascoltare l’improbabile “Transformer Man” pensando al protagonista del brano come al figlio di Young e alla canzone come ad una impossibile ma umanissima speranza e forse imparerete ad amarla come é successo a me.

Dentro c’è tutto il Nello che amo, quello che fa semplicemente quello che vuole perché crede, anzi sa, che é giusto. L’uomo dei sogni grandi e spesso impossibili ma animati dai giusti ideali. Quello che mira in alto per realizzarli senza paura di cadere e che per questo rischia di litigare con case discografiche o deludere i fan.

Anni 90 – Dead Man: Do You Know How To Use This Weapon?
La fine degli anni 80 coincise per il Nostro con un nuovo inizio: la tanto agognata (almeno dai fan) seconda giovinezza. L’esplosione qualitativa di “Freedom” e in particolare quella chitarristica di “Rocking In The Free World” ripartiva da dove (creativamente) lo avevamo lasciato dieci anni prima con “Rust Never Sleeps”, ovvero dallo Young rumoroso capace di incantare sia la vecchia generazione degli anni 60 che le nuove leve del punk

Ecco quindi che al momento del ritorno alla forma il canadese trovò una generazione di nuovi artisti pronti ad accoglierlo a braccia aperte e con i quali stabilire una sorta di rapporto padre (putativo) e figlio. I primi furono i Sonic Youth che trovarono una forte comunanza nel suo chitarrismo dilatato ma grezzo e selvaggio e gli fecero da supporter nella fragorosa tournee di “Ragged Glory” dalla quale fu tratto l’incendiario live “Weld”. Seguirono poi i Pearl Jam che instaurarono con Young un rapporto ancora più stretto tanto da fare un disco in comune che, anche se non all’altezza dei rispettivi capolavori, divenne il simbolo dell’alleanza inter generazionale del r’n’r che aveva come inno proprio  Rockin’.

Insomma il Neil Young elettrico e vicino al noise è quello che maggiormente caratterizza gli anni 90. Un decennio felice, ma che vede la pubblicazione oltre a lavori maggiori come “Sleeps With Angels” o il nostalgico “Harvest Moon” diversi dischi minori. a partire da “Arc”, appendice di “Weld”, che raccoglie intro e code dei brani live montate in un gigantesco monolite di feedback e noise che sfida i sensi l’ascoltatore, “Broken Arrow” e il gemello live “Year Of The Horse” (ndr un debole di chi scrive) che trasporta le classiche cavalcate elettriche dei Crazy Horse in una inedita dimensione ovattata e narcotica, quasi psichedelica e poi “Dead Man”, il disco più singolare di una carriera piena di episodi bizzarri.

Si tratta della colonna sonora del western onirico di Jim Jarmusch che vede Nello alle prese solo con la sua chitarra elettrica, distorsore, delay ed effetti vari.
Pensate al Ry Cooder di Paris Texas in versione lisergica dove alla slide del primo si sostituisce la chitarra iper distorta del canadese e gli echi e le atmosfere desertiche sono rimpiazzate da tremoli e sovraincisioni spaziose che trasportano l’ascoltatore in un vecchio west infestato da fantasmi. L’effetto straniante è sottolineato poi da inserti tratti dal film sotto forma di field recordings e voci recitanti.

Perchè è così importante dunque questo disco? Perchè mostra un aspetto fondamentale dello Young chitarrista: la padronanza dello strumento, che, più che a livello di tecnica, si percepisce a livello di suono e di personalità. Il titolo di un brano del disco “Do You Know How To Use This Weapon?” riassume perfettamente il concetto. La chitarra elettrica nel rock è un’arma e ci sono stati pochi artisti capaci di utilizzarla con la sua abilità e precisione nei colpi. Pochi sono riusciti a dominare le capacità espressive dello strumento tanto da colpire al cuore con la foga lirica o stordire con l’impeto rumoristico; attraverso un personalissimo minimalismo e una sensibilità straordinaria Young riesce a rivelare il lato nascosto delle (poche) note che fuoriescono dallo strumento amplificandone la forza espressiva attraverso il suo suono unico.

E “Dead Man” rappresenta uno dei dischi migliori per godere dello Young chitarrista. Recatevi perciò senza indugio a quell’incrocio nelle strade polverose del vecchio west dove The Loner vi attende, per una volta senza il cavallo pazzo ad accompagnarlo. Vi troverete soli faccia a faccia con la Old Black ad assaporare le note e a farvi avvolgere dallo spazio fra esse, resterete ammaliati dai fraseggi al rallentatore e galleggerete nel rumore free form.

Anni 2000 – Greendale & Living With War: Flags Of Freedom
Purtroppo il tempo passa e nel caso di NY possiamo considerarci fortunati ad aver vissuto con lui una seconda giovinezza. Ma la vecchiaia arriva comunque e ci sono molti modi di viverla.

Sarebbe stato ingenuo aspettarsi un approccio zen e pacificato alla Leonard Cohen ma nemmeno avremmo immaginato che il Nostro rispondesse con un vitalismo schizoide che più passano gli anni più lo porta a saltare da un progetto all’altro (senza contare quelli abortiti) come un bambino iperattivo. Certo non sembra l’atteggiamento più saggio ma da quando istinto e saggezza vanno d’accordo? E poi Neil ci aveva avvertito che non se ne sarebbe andato in sordina perchè “it’s better to burn than to fade away” ….

Ma cosa rimane di tutto questo saltabeccare? Sicuramente tanti progetti estemporanei e bizzarri (il famigerato disco nella cabina telefonica, il live ambientalista con registrazioni di versi di animali, l’autotune di “Peace Trail”), i consueti passi falsi verso generi a lui non congeniali (“Are You Passionate” e il soul, “Storytone” e la sua bulimia orchestrale). Il periodo migliore è quello tra il 2010 e il 2012, anni in cui il nostro sembrava aver rimesso a fuoco gli obiettivi tirando fuori due dischi finalmente di peso: il cantautorato noise impreziosito dalle manipolazioni di Daniel Lanois e intitolato con arguzia e ironia “Le Noise” e il doppio “Psychedelic Pill” con i Crazy Horse, dove il nostro tirava fuori unghie e ispirazione come non capitava da tempo.

C’è stato però anche un periodo tra il 2003 e il 2006 che possiamo considerare minore ma nel quale il nostro ha pubblicato dischi di valore. Oltre al buon “Prairie Wind” che torna ancora una volta sul luogo del delitto di “Harvest”, troviamo “Greendale” e “Living With War”. Due dischi quasi opposti: un concept album ponderato e un po’ cervellotico e logorroico l’uno, un instant album anti-Bush composto e inciso in un battibaleno in pieno stile The Loner l’altro.

Due album però che sembrano risuonare degli stessi amori di Young: l’America e la libertà che in uno spirito romantico e un po’ naif si confondono in un ideale abbraccio di fratellanza. Entrambi i dischi sembrano chiedersi cosa sia successo a quel sogno. Cosa sia successo alla “land of the free”, soverchiata e umiliata dalla “home of the brave”.

“Greendale” è uno dei dischi più ambiziosi di Young. Un ritratto della provincia americana attraverso il classico artificio narrativo della saga familiare. Si percepisce chiaramente l’importanza che l’autore attribuisce al progetto nel quale mette dentro un po’ tutte le tematiche a lui care, dall’ambientalismo alla famiglia, dal vivere fuori dalle righe alla politica, dalla dimensione bucolica ai mass media per finire con l’essenza dello spirito originario americano e la ricerca della libertà. Il canadese investì molte energie in questo progetto e a riprova di quanto vi credeva cominciò, un po’ come fatto con “Time Fades Away”, ma stavolta in solitaria a portarlo dal vivo nonostante fosse anche del tutto inedito per il proprio pubblico che ascoltava stupefatto e attonito. Il disco non è perfetto e risulta spesso monocorde, verboso e troppo lungo. Ma gli episodi migliori però brillano di luce propria come la ballata elettrica “Falling From Above” e la toccante “Bandit” dove Nello tortura le corde dell’acustica come non mai. Il resto è abbastanza indistinto ed è un peccato che canzoni promettenti come le classiche cavalcate alla Crazy Horse vengano un po’ sciupate in favore delle necessità narrative. Canzoni come “Grandpa’s Interview”, “Sun Green” e “Be The Rain” (la migliore delle tre) avrebbero potuto essere trascinanti sgroppate elettriche se curate maggiormente.

Al contrario “Living With War” è un urlo indignato che sale dalle viscere del canadese e un grido d’amore nei confronti degli USA, suo paese adottivo. In politica Neil è sempre stato un po’ ondivago e controverso, arrivando persino – nella confusione (anche umana) degli anni 80 – ad appoggiare la politica estera di Reagan. In occasione di “Living With War”, però, il vecchio Neil decide di schierarsi dalla parte giusta, denunciando il militarismo e l’imperialismo di George W. con le armi del pacifismo, che da vecchio hippy non aveva mai evidentemente riposto e una carica che da tempo i suoi dischi non esibivano. Certo, il disco risente della sua natura di instant record e il canadese a volte suona un po’ demagogico e populista ma é difficile resistere alla carica di “After The Garden”, all’accorato anatema anti guerra di “Living With War” e soprattutto alla canzone che più di tutti racchiude lo spirito indomabile del vecchio guerriero solitario che cerca di scuotere le coscienze di una società dormiente:“Flags Of Freedom”. Canzone che chiama in causa il Bob Dylan di “Chimes Of Freedom” in una sorta di benevolo plagio per chiedersi cosa è rimasto dello spirito pacifista degli anni 60.

Ascoltarla non può non far salire un brivido lungo la schiena a chi ama questo inimitabile artista ma anche, per tornare alle parole iniziali, a chiunque ami il r’n’r.
Perchè in fondo il r’n’ è sempre stato, oltre che di istinto, una questione di libertà e Neil Young ci ha sempre insegnato, e ancora di più nella sua “vecchiaia”, a seguire il proprio cammino senza paura del giudizio altrui, senza dimenticarci del mondo che ci circonda perchè la libertà è una questione individuale ma soprattutto di responsabilità collettiva.

Grazie Neil!

Neil Young - Flags Of Freedom (Video)