E’ possibile che un disco possa essere bello, ma allo stesso tempo rappresentare una cocente delusione? Ve lo chiediamo perché questa sensazione di disappunto mista a piacere è quella che ci ha assalito durante l’ascolto del nuovo lavoro dei These New Puritans. Ma forse occorre fare un passo indietro che serva assieme da premessa e da outing: per chi scrive “Field Of Reeds” è uno dei migliori dischi della decade corrente e probabilmente il migliore pubblicato da artisti non classificabili come veterani. Dunque, come immaginerete, le aspettative erano altissime:  il nuovo disco del gruppo inglese era sicuramente uno dei lavori che attendevamo maggiormente (e credo non solo noi: c’è qualcun altro là fuori?) da diverso tempo a questa parte. La lunga attesa di 6 anni poi non aveva certo creato l’ambiente favorevole per un giudizio distaccato e sereno…

E così i 40 minuti del nostro primo incontro con “Inside The Rose” ci hanno visto dapprima eccitati, poi perplessi e infine delusi. Intendiamoci: da subito ci è parso un lavoro tutt’altro che mal riuscito, eppure qualcosa non tornava…. A non far tornare i conti era l’assenza di una certa attitudine che invece ci aveva conquistato nei lavori precedenti della band. Se c’era qualcosa che ci aveva colpito dei These New Puritans era stata la loro capacità di guardare avanti e di ridefinirsi ad ogni album, senza con ciò rinunciare a una personalità da subito ben formata e matura. Ecco, “Inside The Rose” ci è invece subito apparso come il primo lavoro della band in cui tale attitudine risultava assente: per la prima volta Barnett e soci non guardano avanti, ma si limitano a perfezionare (scientificamente) la loro formula.

Intendiamoci, lo fanno splendidamente (ne parleremo poi) e forse è ingiusto pretendere dai nostri artisti preferiti di reinventarsi ad ogni lavoro, ma con i TNP il paradosso è che nel loro caso l’ambizione rappresenta uno dei fattori più intimamente connessi con la loro musica e con la loro stessa identità.

Dei TNP tutto si può dire meno che siano mai stati un gruppo “scanzonato”. Anzi,  se già il primo lavoro li presentava come gruppo colto capace di unire impetuosità post-punk, spleen esistenziale e freddezza matematica (vedi il debole verso la numerologia di “Beat Pyramid”), nel secondo, “Hidden”, confermavano il loro campo da gioco aggiungendo alla formula una grandeur orchestrale e delle marziali scansioni elettroniche sospese tra ritmiche industrial e battiti hip-hop che arricchivano un sound che sarebbe poi sfociato nello sfuggente neoclassicismo di “Fields Of Reeds”. L’ombrosità del personaggio Barnett completava il quadro, rendendo i These New Puritans il classico gruppo divisivo: chi li considerava della stessa benedetta stirpe britannica che ci aveva già dato i Wyatt, gli Yorke e gli Hollis e chi invece li giudicava freddi, cerebrali e presuntuosi.

A nostro parere, nessuna di queste due opinioni risulta errata: l’identità dei TNP risiede proprio nel bilanciamento tra una presuntuosa freddezza cerebrale e l’ambizione di creare ad ogni episodio l’opus magnum. Da qui vederli in “Inside the Rose” volgere lo sguardo indietro e non prendersi rischi ha finito per costituire di per sé una delusione e questo al di là della riuscita di un disco che comunque rimane superiore a gran parte delle uscite di qualunque band contemporanea.

Prendiamo ad esempio la pur splendida “A-R-P”: dopo una prima parte molto suggestiva, il brano si sviluppa in una coda ritmica davvero poco coraggiosa (almeno per i loro standard) che rinuncia a tracimare dal formato canzone e non cerca il largo respiro strumentale ed atmosferico che avvolgeva ogni composizione di “Fields of Reeds”. Il risultato ci sembra  rappresentativo dell’intero album: un brano abbagliante, ma che si ferma un attimo prima di diventare un capolavoro.

Precisate le ragioni della delusione, sarebbe poi ingiusto non rendere comunque giustizia a un lavoro bellissimo, retto dal fulgido talento di Jack Barnett, sempre più deus ex machina della band, che ha scelto di non proseguire nel progressivo allontanamento dalla forma canzone che il lavoro precedente poteva far supporre, per concentrarsi piuttosto verso un suo perfezionamento che potesse incanalare le molteplici influenze che impreziosivano i dischi precedenti.

E così “Infinity vibraphones” propone una sintesi perfetta tra il tribalismo marziale di “Hidden” e le atmosfere sospese di “Fields Of Reeds”; lavoro cui si rifà anche “Into The Fire” soprattutto nel sinistro intermezzo con protagonista la voce di David Tibet. “Anti-gravity” riesce in 4 minuti a miscelare mirabilmente tutti i loro marchi di fabbrica: melodie oblique e atmosfere oscure, ritmica tribale e matematica, cura dei suoni maniacale e livello di scrittura elevatissimo.

These New Puritans - Anti-Gravity (Lyric Video)

Così come elevatissima è la scrittura per “Where The Trees Are On Fire”: una perla preziosa  le cui raffinate orchestrazioni servono a sottolineare la splendida interpretazione vocale di Barnett il cui cantato – in generale, in tutto il disco – risulta sempre più curato e consapevole. Se nei lavori precedenti si aveva l’impressione che la voce fosse utilizzata come strumento non predominante sugli altri, in questo lavoro il canto risulta decisamente più espressivo e interessato a veicolare la soggettività e l’umanità dell’interprete. Interessantissima anche “Beyond Black Sun”: forse l’unico caso all’interno dell’album nel quale l’autore sembra provare a uscire dalle proprie formule consolidate. Dopo una prima parte che unisce i Dead Can Dance di “Into The labyrinth” con le scansioni di certo trip hop, il brano riapproda a un più consueto e rasserenato finale, caratterizzato da uno straniante gorgheggio di soprano.

Resta infine da segnalare la meticolosità e l’incredibile qualità degli arrangiamenti e della produzione: se spesso a una lunga gestazione seguono squilibri o eccessi produttivi, i sei anni di lavoro sull’album hanno piuttosto portato a una perfezione minimalista.

Ricapitolando, “Inside The Rose” rappresenta “solo” un lavoro superbo, ma non speciale come i due precedenti. Un album che – ci auguriamo – rappresenti la chiusura di una prima fase di carriera che introduca la band verso un nuovo percorso dove far brillare nuovamente il loro indiscutibile talento.