Scott Walker era uno dei “nostri”.
I suoi dischi girano da sempre sui nostri impianti. Da quando lo abbiamo scoperto, magari perché citato in un articolo su David Bowie o perché leggevamo divertiti dell’abitudine di Neil Hannon dei Divine Comedy di mandare in anteprima ogni suo disco al maestro.

Fatto sta che l’opera di questo artista ci appartiene da anni. Assieme al suo ostico e scostante genio e all’idea gigantesca e testarda di esplorare i confini ultimi della canzone, alla ricerca del punto di rottura oltre al quale questa non può più essere chiamata tale.

Ci aveva già abituato a lunghi silenzi, Scott.Quelli di una discografia fattasi via via sempre più rada e quelli che si insinuavano in certe canzoni, come ulteriore elemento narrativo all’interno della melodrammatica e teatrale mostra delle atrocità che le sue opere erano diventate.

Il silenzio che ci attende adesso appare come definitivo.

E’ chiaro che non sarà così: presto ci si renderà presto conto che, oltre certi confini da lui tracciati, non ci si può spingere.
E si dovrà fare ritorno.
Verso quei luoghi poco rassicuranti in cui la bellezza di una voce assoluta ha voluto lasciare posto al vuoto e alla deriva dell’uomo e della sua storia.