Dopo “Stanze” e “Lungo i bordi”, con “Da qui” i Massimo Volume si trovarono di fronte, oltre che il loro zenith creativo, il più classico dei bivii. Di quelli che decidono il futuro di una carriera. La produzione di Steve Piccolo aveva enfatizzato la peculiare formula del loro sound, spingendo al massimo verso la ricerca del silenzio e dell’equilibrio tra la furia geometrica del post rock e una stasi gravida di parole non dette. Un equilibrio che, alla concretezza del rock, sembrava preferire il passo diafano di certo avant-rock. E ciò senza rinunciare alla prosa asciutta ed epifanica di Emidio Clementi, alle chitarre sospese tra caos e tregua di Egle Sommacal, né alla batteria di Vittoria Burattini che, più che tenere il ritmo, ci disegnava intorno figure astratte e lineari. Il suono “Massimo Volume” poteva dunque dissolversi in territori cari a quei Starfuckers divenuti poi Sinistri che dopotutto erano stati tra i primi ispiratori dei nostri in quella Bologna a cavallo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta. Ma nel frattempo il contesto era mutato: l’esplosione del rock alternativo cantato in italiano aveva visto il trionfo di band come Afterhours, Marlene Kuntz e C.S.I.. Probabilmente l’idea di passare all’incasso della propria fetta di torta, finì per influenzare il lavoro che ne seguì ovvero quel “Club Privé” la cui produzione (curata da Manuel Agnelli) rendeva più denso e saturo un suono che prima di allora si era asciugato sempre di più. Disco interlocutorio, “Club Privé”, che però – al netto di alcuni episodi (tra cui quelli in cui Clementi, in maniera poco convinta e convincente, provava cantare) – sapeva regalare alcune perle di innegabile profondità e splendore. Dopo quel disco (per la cronaca un fiasco al botteghino), complici anche stanchezze e dissapori personali, la band si scioglieva, mettendo un punto a una delle esperienze musicali più belle e piene della nostra musica.
La rinascita della band è storia recente: dapprima con una tourné che ha fruttato un disco dal vivo (“Bologna, Nov 2008”), ma che soprattutto ha avuto il pregio di far ascoltare quella formula a una nuova generazione di spettatori che rimaneva incantata dal carisma di Clementi e dalla materia grigia di un Egle Sommacal le cui linee di chitarra si intrecciavano con quelle di un’altra superstar indie: Stefano Pilia. Con questa formazione (che vede alla batteria ovviamente Vittoria), viene inciso forse il lavoro migliore della loro discografia: “Cattive abitudini” nel 2010 ci confermava che al famoso bivio la band aveva scelto una strada da cui non era più possibile fare ritorno. La ricerca interrotta all’indomani di “Da qui” non riprendeva (certi attimi, si sa, sfuggono e non tornano più…), ma piuttosto si rendeva necessario proseguire da dove ci si era interrotti, inseguendo un suono che negli anni si scopriva essere divenuto talmente classico da non necessitare di sviluppi, ma solo di perfezionamento. “Cattive abitudini” faceva questo con una sincerità ed una onestà che lo rendevano una delle cose migliori mai ascoltate negli anni ’10 e non solo in Italia. “Aspettando i barbari” lo seguiva di tre anni e scontava più il fatto di venire dopo un capolavoro di tal genere.
Passano altri sei anni e ritroviamo i Massimo Volume con questo “Il nuotatore” e stavolta sono in trio: dopo l’avvicendamento di ben sei chitarristi, i ragazzi hanno forse deciso di rinunciare a quel maledetto quarto membro… Non nascondo che la notizia della riduzione in trio del gruppo aveva generato in me la speranza che si riprendesse la ricerca verso una scarnificazione totale capace di riportare alla luce cicatrici fino ad ora nascoste, ma nulla di tutto questo accade: si affina piuttosto ulteriormente la formula, quasi come la si dovesse consegnare definitivamente ai posteri.
Suonano austeri e magnifici oggi i Massimo Volume, incutono timore e reverenza e tirano fuori un disco perfetto.
A “Il nuotatore” piace vincere facile, trasponendo (splendidamente) in musica una delle migliori short story del novecento americano. “La ditta dell’acqua minerale” racconta una storia di provincia e di fallimento con i toni tesi e asciutti che chi ha letto i romanzi di Clementi conosce bene. “Nostra signora del caso” è sospesa e onirica, mentre passa al setaccio della moviola uno struggimento sofferente ed esistenziale. “L’ultima notte del mondo” è un capolavoro post-moderno che dietro il citazionismo ironico, nasconde una riflessione profondissima. Così come ironica è la riflessione paradossale che sta alla base di “Mia madre e la morte del Gen. José Sanjurjo”.
Questo solo per citare alcuni episodi, in un lavoro breve e senza cedimenti.
Un lavoro perfetto, che si prende però pochi rischi.
Talmente perfetto che viene da abbassare il voto di un punto. (Voto: 8.00)
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