Il 24 Gennaio del 2018 moriva all’età di 60 anni Mark E. Smith.
Scrivere del Sig. Smith vuol dire scrivere dei Fall, ovvero di quello che, più che la sua band, era piuttosto il filtro necessario che l’uomo aveva imparato a frapporre fra se stesso e il mondo. E grazie alla sua creatura, Mark E. Smith riusciva a restare al sicuro, mentre – feroce e strafottente – aggrediva il mondo con bordate di nichilismo e cinismo.
Ma parlare dei Fall vuol anche dire parlare di new wave, ovvero di quella che, a detta di molti, è stata l’ultima era geologica in cui il rock ha detto qualcosa di nuovo, riuscendo nel trucco di reinventarsi quasi da capo, grazie a una brusca frattura con i paradigmi musicali stilati negli anni sessanta.
Ma – attenzione – se questo senso di rottura era percepito soprattutto da un pubblico in cerca di connotati identitari e generazionali, va detto che tale estraneità era in verità molto meno avvertita dai musicisti: per quanto la new wave amasse vendere la propria alterità, non era certo una musica che nasceva dal nulla. I musicisti post-punk poggiavano infatti le proprie radici nei tesori più nascosti della musica rock.
Mark E. Smith era uno di loro, ma rispetto agli altri poteva vantare quel malevolo ghigno di strafottenza che in un attimo faceva tabula rasa di tutto il rock di derivazione blues che in quegli anni si era rinchiuso in un poco eccitante gigantismo solipsistico. Dunque, niente più scale blues, chitarre acustiche o batterie con la doppia cassa. Basta con tasteristi vestiti come Galdalf o storie di cavalieri medievali. Basta con l’amore e la trascendenza. Benvenuta dura realtà: cantata senza filtri, né metafore. Benvenuti ritmi robotici e reiterati, storie di alienazione urbana e funk sbiancati e isterici. Fuori i lunghi assoli di chitarra, dentro rumorismi minimali e ritmiche taglienti. C’era, d’altronde, un nuovo contesto sociale e politico da raccontare, alienato e alienante, rappresentato dalla grigia industrializzazione subita da sobborghi americani come Cleeveland o britannici come Manchester.
I wavers come Mark E. Smith si rifacevano a chi in maniera sotterranea per anni aveva cospirato contro il mainstream e prendevano a modello la Germania krauta di Can, Neu e Kraftwerk, il trambusto sferragliante dei blues scorticati di Captain Beefheart o ancora asciugavano la bava al sound furente degli Stooges mettendolo a bagno nello spleen industriale e nella condensa da birra che inzuppava i banconi dei pub.
Così avevano cominciato i Fall e così in verità hanno finito. E per quarant’anni hanno fatto questo. Ed era bello sapere che c’era gente come Smith (o come il collega americano Alan Vega) capace di imporre la propria presenza contemporaneamente al centro della scena e ai suoi margini. E’ stato bello per tanti anni vedere quella faccia da ragazzino che invecchiava sempre più sotto i nostri occhi, come in uno strano effetto di time elapse… Saperlo sempre pronto a dare la sua zampata e a ghignare della sua Inghilterra che amava ritrarre al vetriolo.
Ho sempre avuto l’impressione che il grande Mark se la ridesse di tutti noi che lo idolatravamo. Lui che alla fine per quarant’anni ha fatto solo una cosa: utilizzare musicisti sempre diversi per dare corpo alla medesima idea di musica che aveva in testa. E dunque: Rock n’ Roll elettrico, basso pulsante e cantato spoken sproloquiante/bofonchiante, chitarre e batterie condotte all’unisono, baraonde ritmiche che mettevano ordine in un’apparente (?) confusione, atteggiamento di sfida e offesa gratuita.
In questa maniera i Fall sono andati avanti per trenta e passa dischi, più un numero imprecisato di singoli, qualche live, raccolte e poi rarità e session da John Peel che li aveva eletti a band preferita.
Nel frattempo, il mainstream conosceva le tastiere prima e il ritorno delle chitarre poi, le melodie del brit-pop e persino l’acido dei rave; l’underground più avant invece destrutturava sempre più la canzone, spesso allargando proprio le ferite che le ritmiche dei Fall avevano aperto sul corpaccione martoriato del rock n’ roll. Poi si è tornati tutti a suonare post-punk. Tutti di nuovo algidi e vagamente isterici e i Fall erano sempre lì, a farlo meglio di chiunque altro. Sempre uguali, eppure diversi.
Band citata da molti, ma da pochi ascoltata. Intimidiva la discografia torrenziale e l’assenza di classici o di capolavori conclamati da ascoltare per poter poi dire “ok, i Fall sono questi”. No, il pacchetto dovevi beccartelo per intero. Niente sconti. D’altronde quando mai Mark E Smith ha fatto sconti a qualcuno, primo fra tutti se stesso? Mentre scivolava nei vizi e indulgeva in comportamenti che sempre più si faceva fatica a derubricare alla voce “caratteraccio”, il vecchio Mark sapeva fare solo una cosa: suonare.
Ora punk e veloce, ora dilatato e avventuroso al limite dell’inconcludente. Se gli girava inseriva qualche ritmo electro giusto per far vedere che poteva fare qualunque cosa con la propria creatura, magari anche suonare country o andarci giù pesante con il rockabilly. Se in giro si sentivano i sintetizzatori, si poteva trovare in giro qualcuno disposto a suonarglieli, tanto poi bastava quella voce e quella sua idea insistente e spastica di ritmo a riportare tutto a casa.
Mi sembra di vederlo, intento a spiegare il suono che aveva in testa ai nuovi componenti della band (ce n’era sempre qualcuno, dopotutto parliamo dell’emanazione in forma di band di chi amava dire “Se ci sono io e tua nonna ai bonghi, siamo i Fall“).
Non sono un completista terminale (mi riservo il diritto di non ascoltare certi dischi di Neil Young, per dire), però se decido che un artista è uno dei miei, non mi lascio scappare nulla. Ma anche in questo caso non ho smanie da possesso immediato. E’ bello sapere che c’è ancora un film di Truffaut da vedere o un libro di Ballard o di Calvino da leggere.
Così come era bello sapere che c’era ancora un disco dei Fall da ascoltare.
Dal 24 gennaio dell’anno scorso, è cominciato il conto alla rovescia.
Prima o poi finirò per ascoltarli tutti e già mi sembra di sentire Mark una volta che avrò terminato la collezione. Soffierà via il fumo della sigaretta e dirà: “Bravo, coglione!“
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