Il primo amore non si scorda mai…almeno fino al secondo.
Dopotutto si sa che nella ricerca musicale fedeltà e infedeltà si intrecciano in un groviglio inestricabile e, se l’amore verso gli artisti del cuore è devoto e sincero, in fondo si ė sempre pronti alla scappatella. Tutte le volte che si schiaccia il tasto Play su un nuovo artista si é in cerca di una nuova infatuazione.
Con il passare del tempo e l’aumentare dei dischi ascoltati questi attimi capaci di soddisfare la nostra irrequietezza affettiva sembrano diventare sempre più rari.
Poi però ….succede….così per caso quando meno te lo aspetti.
Come nella vita, anche nella musica capita che il primo incontro con un artista sia fuggevole. Magari si intuisce qualcosa, ma per un ragione o per un’altra non si ha il tempo necessario per approfondire. Eppure il fuoco resta sepolto sotto la cenere. Così è stato per me l’approccio con The Necks, avvenuto con l’ascolto parziale di “Unfold” del 2017, dopo il quale il gruppo era finito catalogato nella lista “interessante, ma da ascoltare con più attenzione” e lì era rimasto, nascosto dagli altri numerosi componenti del medesimo elenco. Dopo il secondo incontro, costituito da “Body”, però il ghiaccio era finalmente sciolto. Al termine dell’ascolto era ormai chiaro che quei 56 minuti di pura trance rappresentavano solo l’inizio di un lungo percorso nella discografia dei Necks.
Come dice il mio amico Dixon, sostenitore di un completismo senza fretta e dai tempi lunghi: “E bello sapere che c’è un altro disco dei ….. da ascoltare” e in questo senso i Necks costituiscono il gruppo ideale. Inoltrarsi nella loro musica significa infatti compiere un viaggio apparentemente lungo 20 dischi ma in realtà potenzialmente infinito. Le loro opere infatti si rivelano creature cangianti capaci di svelare particolari inediti ad ogni nuovo incontro e di prestarsi ad angolazioni e modalità di ascolto diverse e sempre stimolanti.
Ed è in questo peregrinare che nasce questo articolo, che si pone come obiettivo la risposta a una semplice domanda: “perchè mi piacciono?” Lo scopo non è quello di dare un’interpretazione propriamente critica e musicologica dell’ opera del gruppo australiano formato da Chris Abrahams, Lloyd Swanton e Tony Buck, ma di interrogarmi, da semplice ascoltatore, sulla sua natura (così sfuggente peraltro), sui suoi pilastri fondanti e sulle ragioni ultime per le quali ha scavato un così profondo segno dentro di me.
Ecco quindi il risultato di tale indagine: i 9 (almeno fino ad oggi) motivi per i quali amo The Necks.
– Piano trio mutante Il gruppo australiano si presenta sotto la classica forma del piano trio jazz. Ed anche se i Necks non sono propriamente jazz ma qualcuno li ha definiti il trio migliore sulla faccia della terra…. Non lo dico io ma quel Geoff Dyer, autore tra le altre cose del magnifico “Natura morta con Sax” sul NYT. Il primo e fugace incontro con il primo brano di “Unfold” aveva generato l’idea (che come vedremo poi si rivelerà superficiale) di un trio che si rifaceva al suono etereo e astratto di casa ECM. I successivi ascolti hanno però fatto capire di avere di fronte tutt’altro e soprattutto molto di piu. Un trio che della formazione tradizionale mantiene solo l’apparenza. Parafrasando le parole che Simon Reynolds (al quale chiedo umilmente venia per il benevolo “scippo”) utilizza per descrivere i gruppi post-rock, si potrebbe dire che i tre musicisti utilizzano una strumentazione jazz per scopi non-jazz usando il piano per creare timbri e tessiture piuttosto che temi e assoli. Quindi si può dire che, agendo sulle fondamenta stesse della formazione classica, il trio ne costituisca una mutazione genetica.
– Inafferrabilitá Dalla lettura di articoli, interviste e recensioni emerge chiaro come la loro musica sia refrattaria ad ogni classificazione. Li puoi trovare definiti nei modi più disparati, da smooth jazz (ci vuole però un gran coraggio…) ad ambient, da post-jazz (per tornare al paragone di Reynolds…) ad avant, ma l’impressione ricavata leggendo i vari articoli in cui mi sono imbattuto era che tutte queste definizioni fossero vane forzature. Gli ascolti hanno confermato in pieno questa sensazione. I Necks sono inafferrabili e nessuno di questi tentativi di ingabbiarli funziona. La loro musica é una bestia rara, capace di sfuggire alla rassicurante furia tassonomica alla quale noi umani tendiamo ad aggrapparci.
– Musica organica Ora che il viaggio è in corso descriverei ciò che suonano come “musica organica”. E’ una musica che sembra vivere di vita propria, quasi che gli autori fossero solo gli strumenti attraverso i quali opera essa stessa. Ascoltare un album dei Necks é come osservare continuamente la crescita di un essere vivente. Percepisci un continuo e microscopico mutamento, mentre ti abitui gradualmente all’evoluzione del quadro macroscopico. Tutto cambia anche se pare non variare nell’immediato. Le differenze invece appaiono evidenti e percepite in maniera più forte solo da chi guarda a distanza di tempo.
– Musica complessa, ma non complicata, cerebrale ma non intellettuale. Può sembrare paradossale vista la struttura monolitica con la quale si presenta ma rispetto alla maggior parte della musica di libera improvvisazione quella dei Necks é decisamente più accessibile e meno elitaria di quanto possa apparire. Certo necessita di dedizione tempo e pazienza, ma é una musica che non va capita, ma piuttosto vissuta. Non necessita di interpretazione, ma solo di semplice arrendevolezza. É una musica nata in principio per non essere suonata in pubblico, ma poi il filo recondito e intimo che univa i musicisti si é espanso e trasformato in un silente e empatico legame che unisce pubblico e esecutori in un’armonia collettiva.
– Diversi ma uguali Anche nei Necks si intrecciano fedeltà e infedeltà, ma mai tradimento. I singoli infatti esplorano il mondo circostante attraverso progetti alternativi e quando si riuniscono portano con sé il bagaglio di esperienze acquisito. Tali esperienze vengono poi filtrate e interpretate attraverso il suono ciclico (cyclic playing) del gruppo e fatte fermentare grazie al sottile equilibrio che si instaura tra libera improvvisazione e rigida struttura concettuale che regola l’interazione tra i musicisti. Il risultato é una musica vitale e in costante evoluzione che mantiene però sempre la propria identità. Insomma sempre diversa ma sempre uguale a se stessa.
Il bassista Lloyd Swanton dice “C’è qualcosa in ciò che facciamo che ci fa sempre suonare come The Necks, è un elemento stabile e non improvvisato”.
Si può dire che utilizzando la grammatica di altri linguaggi musicali con la propria sintassi il trio riesca a creare non solo una musica ma una lingua propria fortemente riconoscibile e spesso inaudita.
– Musica del subcosciente Una delle prime impressioni susseguenti all’ascolto di “Body” e confermata poi dal resto della discografia é che si tratti di una musica avventurosa senza essere aggressiva; una musica dilatata cui arrendersi, che bypassa la parte più razionale per insinuarsi nel subconscio, inducendo uno stato tra la veglia e il sogno lucido. Una materia a volte eterea, altre oscura, a volte soffice, altre spigolosa, nella quale immergersi. A differenza di altre musiche “da viaggio” (come ad esempio l’ambient e la psichedelia) non evoca luoghi altri ma uno spazio interiore in cui si viaggia, senza mai perdere la coscienza dello spazio circostante. Una sorta di dimensione parallela e iperreale che aiuta a focalizzare maggiormente il proprio pensiero.
– “We always solo, We Never solo” Dimezzando la famosa frase di Joe Zawinul riguardo ai Weather Report si ottiene un’apparente banalitá che però descrive la extra-ordinarietà dei tre australiani, ovvero di musicisti capaci di improvvisare e dimostrare la propria abilità senza eseguire alcun vero e proprio assolo. Non c’è mai virtuosismo fine a se stesso, ma solo purissimo Interplay. Anche le parti più complicate sono sempre funzionali all’insieme. Il pianista Chris Abrahams ad esempio è un maestro nella creazione di pattern pianistici: gioca con le note e con lo spazio tra di esse, un po’ come si fa con i numeri. Aggiunge, sottrae e permuta i fattori, trasformando lentamente espressioni semplici in complesse e viceversa. Tony Buck è un esploratore del ritmo capace di scandagliarne ogni anfratto anche quando lambisce il silenzio. Il suo lavoro con i piatti ad esempio dimostra una sensibilità ritmica davvero fuori dal comune. In questo senso si ritrova in Buck una vicinanza ideale a quello che a mio avviso è stato uno dei più grandi poeti della batteria, Paul Motian. Il più sorprendente è però il contrabbassista Lloyd Swanton capace di mostrare la sua abilità ripetendo la stessa (apparentemente) semplice sequenza di note o di ipnotizzare utilizzando una sola nota. (Scherzando si può dire che, nell’intera discografia dei Necks, Swanton suoni meno note di Chris Squire in una canzone degli Yes…) Swanton riporta il basso al suo ruolo essenziale e primigenio. Quello di battito, di pulsazione vitale (e ritorniamo al concetto di musica organica). A volte lo strumento sembra scomparire ma, come il cuore, anche quando non se ne percepisce l’esistenza, non smette di esercitare la propria essenziale funzione.
– Rischio Cercando notizie su di loro mi sono imbattuto in una critica secondo la quale uno dei problemi del trio era che rispetto al resto della libera improvvisazione non si prendesse dei rischi. Non so se sia altrettanto difficile esplorare e cercare infinite variazioni all’interno di un territorio delimitato dalla ciclicità rispetto all’ampio spazio che la classica libera improvvisazione offre… Bisognerebbe probabilmente chiederlo a un musicista. Dal punto di vista dell’ascoltatore, nella mia esperienza, il rischio maggiore nella libera improvvisazione è quello di smarrirsi, di perdere il filo che lega il fruitore e gli esecutori. Ma quali sono i rischi che si prendono The Necks? A mio avviso la sfida maggiore del trio è quella di non annoiare. Cercare in un arco di tempo dilatato infinite variazioni, lavorare sui dettagli senza trasmettere all’interlocutore una sensazione di stasi e senza dare l’impressione di essersi “impantanati” e girare a vuoto. Ciò a mio avviso é una sfida altrettanto affascinante e stimolante, sia per gli esecutori che per gli ascoltatori.
– Libertà É un discorso che vale per tutta la libera improvvisazione, ma nei Necks trova a mio avviso un’incarnazione particolare, dato il patto e le regole di fondo che vincolano volontariamente e reciprocamente l’ambito di azione dei musicisti. La loro musica trasmette un autentico e profondo senso di libertà. Ciascun componente non può fare semplicemente ciò che vuole. Ogni sua scelta, ogni nota é un atto di responsabilità e allo stesso tempo di abbandono verso gli altri. Solo questo mutuo atteggiamento permette alla musica di essere libera e collettiva, non una mera sommatoria di performance individuali.
Lo stesso Abrahams sottolinea “Parlando personalmente, gran parte di ciò che avevo fatto prima era individualista, soprattutto nell’ambito del solismo jazz. Volevamo creare un suono che non fosse in definitiva individuale”.
L’inizio di ogni loro esibizione assume in questo senso un significato simbolico: l’assoluto e rispettoso silenzio che avvolge il trio e il pubblico prima dell’esibizione viene ogni volta rotto, senza preavviso e in maniera non predeterminata, da uno dei tre che prende, appunto, “liberamente” l’iniziativa dando inizio al flusso improvvisativo.
Questi sono i miei motivi (almeno fino a oggi) ma, ne sono certo, sia la musica che ci proporranno in futuro che la frequentazione di quella già ascoltata forniranno altre diverse validissime ragioni per tuffarsi nella loro arte.
Quindi magari in futuro questo articolo andrà aggiornato in 9+n motivi contenenti i miei e, perché no, quelli di chi vorrà condividerli con noi…..
Discografia
AVVERTENZE: La discografia del gruppo è ampia e diversificata perciò per ogni disco è stato inserito un breve commento descrittivo. I giudizi vanno da IMPERDIBILE a PER COMPLETISTI e sono relativi al valore all’interno della loro discografia. Le scelte sono sempre arbitrarie, ma mai come in questo caso dato l’elevato livello medio e l’eterogeneità delle opere. A detta dei componenti poi i dischi nascono spesso come reazione al precedente. Quindi l’invito è di non fermarsi al primo disco ascoltato, ma procedere comunque. Sono anche indicati i dischi reputati migliori per cominciare. Una nota anche sulla reperibilità, purtroppo non facile o a caro prezzo soprattutto per i dischi del primo periodo.
Sex (1989) > ESSENZIALE. esordio e archetipo del brano ripetitivo alla Necks; il punto di partenza è un semplice tema jazz eseguito in maniera ciclica con infinite variazioni e senza un vero e proprio crescendo; la band mette subito in mostra le proprie caratteristiche. Il disco richiede un’adesione totale alla musica per non apparire una sterile ed estenuante ripetizione . E’ il loro disco più venduto ma consiglio di non iniziare da qui;
Next (1990) > PER COMPLETISTI il disco sembra un tentativo di non restare ingabbiati nella formula di Sex ed è diviso in diversi brani. Pur con qualche zampata (i 28 minuti di Pele) è il disco che meno mi sembra rappresentare l’essenza del gruppo;
Aquatic (1994) > BUONO. diviso in due brani il gruppo torna a sfoderare la ricerca della progressione infinita; non uno dei migliori ma comunque valido;
Silent Night (1995) > CONSIGLIATO. interessante doppio disco costituito da atmosfere notturne e cinematografiche mescolate ai campionamenti di Black e dalla reiterazione ossessiva di White;
The Boys (Music for the Feature Film) (1998) > ESSENZIALE. un’anomalia nella discografia; una colonna sonora divisa in più brani che anche in assenza delle immagini riesce ad essere efficace. Questa volta i brani pur se brevi riescono a catturare l’anima del trio;
Piano Bass And Drums (1998) > ESSENZIALE. Primo live mostra una progressione esasperata fino ai limiti di un groove di stampo jazz;
Hanging Gardens (1999) > IMPERDIBILE; un groove reiterato per un’ora mescolato ad atmosfere davisiane alla “In Silent Way” e tentazioni ritmiche mutuate dal drum’n’bass;
Aether (2001) > IMPERDIBILE: un viaggio lungo un’ora dal silenzio all’estasi in un climax mesmerico; mai come in questo caso l’arte della sottigliezza e del crescendo impercettibile trova la sua realizzazione;
Athenaeum, Homebush, Quay & Raab (2002) > ESSENZIALE. Monumentale e polimorfo quadruplo live che fotografa la band nella sua ecletticità e nella straordinaria capacità di essere sempre diversa e uguale;
Photosynthetic (2003) > BUONO. Il disco live meno accessibile e riuscito anche se comunque interessante;
Drive By (2003) > IMPERDIBILE. Iil disco riprende l’estrema ripetizione di Sex, ma stavolta spingendola a livelli altissimi; semplici sequenze ripetute che appaiono e scompaiono, campionamenti adagiati su una ritmica apparentemente semplice ma sempre in costante evoluzione, influenze dub e un’atmosfera inquietante;
Mosquito / See Through (2004) > CONSIGLIATO. Uno dei dischi più difficili dei Necks che si spinge ai limiti della ricerca inframezzando alcuni minuti di silenzio alla musica;
Chemist (2006) > ESSENZIALE, ideale per iniziare. forse il disco più accessibile con tre brani con forti richiami al post-rock;
Townsville (2007) > CONSIGLIATO. Un live in cui il piano di Abrahams si trasforma lentamente in una cascata infinita di note;
Silverwater (2009) > ESSENZIALE. i Necks approdano al loro disco “cosmico”. i riferimenti alla musica tedesca non sono diretti ma le atmosfere e l’attitudine espansiva sembrano richiamarla;
Mindset (2011) > CONSIGLIATO. Uno dei dischi più veementi (il primo brano) e oscuri (il secondo). Consiglio di ascoltarlo tra gli ultimi;
Open (2013) > ESSENZIALE. Riprende ottimamente i suoni rarefatti di Aether, ma con ma un’attitudine maggiormente estatica e contemplativa. Il climax centrale di trascendente bellezza rappresenta uno degli apici dell’intera discografia;
Vertigo (2015) > ESSENZIALE. il disco più astratto e spigoloso dei Necks. Richiede più ascolti per essere penetrato ma ne vale la pena;
Unfold (2017) > CONSIGLIATO. la dimensione del doppio vinile porta a quattro lunghi brani che vanno da astrattezze jazz alle tipiche millimetriche progressioni del trio;
Body (2018) > ESSENZIALE, ideale per iniziare. Uno dei migliori del 2018; un lungo brano diviso in quattro sezioni che spaziano dall’etereo a un’inedita durezza nell’accelerata quasi rock centrale.
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