Può suonare come una banalità, ma chi ama un certo tipo di musica non può non subire una certa fascinazione nei confronti della chitarra elettrica. La strumento principe del rock n’ roll ha incarnato alla perfezione il sentimento di un’epoca in cui l’Occidente si rialzava dalla macerie dei due conflitti mondiali e migliorava la propria qualità della vita grazie (anche) alla diffusione capillare dell’energia elettrica. Gli strumenti musicali non venivano certo risparmiati da questo processo di modernizzazione. E così, fra i fattori che propiziavano il passaggio dal blues acustico del Delta a quello elettrico di Chicago, fino ad arrivare al rock n’ roll di Chuck Berry, non può non citarsi anche l’elettrificazione della chitarra.
Ok, va bene, l’ho presa un po’ alla lontana, è vero, ma tutto questo era per dire che il rock n’ roll ha sempre seguito una propria linea evolutiva, caratterizzata dalla presenza o dall’assenza di questo strumento dalla forma fallica, perfetto per rendere il sottinteso erotico e sessuale di questa musica e che da subito ne ha rappresentato “croce e delizia”.
In nome del sacro manico sono stati perpetrati crimini musicali non di poco conto, consumati su scale suonate a ritmi vertiginosi, distorsioni rotonde e invero pulitissime, nonché effetti di raddoppio su diverse ottave, che solo la pietà di Nostro Signore potrà (?) perdonare. A questi giocolieri delle sei corde, ho sempre preferito quei sarti che avevano maggiormente a cuore il colore e la foggia degli abiti che una chitarra può cucire addosso a una canzone.
Ad esempio, negli anni novanta, uno dei miei idoli divenne Graham Coxon, il chitarrista occhialuto e sfigato dei Blur. Il ragazzo oggi spopolerebbe tra gli hipster, che di fatto gli hanno copiato il look dimesso, ma all’epoca era il brutto anatroccolo del gruppo, a fronte della esibita coolness di Damon Albarn e Alex James, rispettivamente cantante e bassista della formazione. Graham però tirava dritto per la sua strada, occhi bassi su una chitarra che non sapeva certo suonare in maniera virtuosa, si ingegnava a trovare sempre soluzioni personali per vestire con le sue trame gli orditi delle melodie che Damon proponeva. Fu grazie a questa combinazione che i Blur trionfarono, dapprima ponendosi alla testa del fenomeno brit-pop e, successivamente, perso per abbandono e/o manifestata diversità lo scontro con i rivali Oasis, abbandonando quella scena prima che si divenisse parodie di se stessi.
La seconda e ultima fase si rivelò ancora più feconda della prima in termini di dividendi artistici e fu condotta da un Damon che lì a poco sarebbe diventato uno dei musicisti più prolifici della borghesia democratica britannica e dalla chitarra di Graham che, quintessenzialmente britannica, guardava all’America più slacker e post-rock. Fu una crescita esponenziale che trovò il capolavoro nel 1997 con l’album “Blur” e il suo punto di rottura nel 1998 con “13”. Disco che fece storcere più di un naso. E a ragione per molti aspetti. Si trattava di un disco eccessivo e spesso fuori fuoco, con una produzione – a cura dell’allora star della console William Orbit – che non brilla certo per concisione. Il disco si era originato dalle infinite session registrate sul disco fisso di un computer e poi lavorate, tagliate ed incollate fino a creare quell’alternanza tra brani killer (Coffee and TV), silenzi, ronzii e sperimentazioni ardite (Caramel).
Non solo, quello era il disco della fine della relazione di Damon con la tipa delle Elastica (da qui il tono malinconico che permea ogni melodia dell’album), ma soprattutto era il lavoro della band in cui finalmente la chitarra di Graham andava a briglia sciolta, sbizzarrendosi in un tripudio di suoni e colori.
Di tutte queste canzoni, la mia preferita è sempre stata “1992” in cui la chitarra di Coxon lievita, perde consistenza e si trasforma in puro suono, fino a cancellare qualunque legame con l’oggetto che lo sta generando. Dapprima accompagna il cantato dolente e impersonale di Damon (che parla di relazioni finite male e di una persona che avrebbe dovuto amare il suo letto, ma ne ha scelto un altro), utilizzando una progressione di accordi in minore che si sussegue sempre uguale e tende a una trance lievemente satura e distorta. Poi la reiterazione viene sabotata da tutta una serie di suoni abnormi che lavorano sull’accumulo e la stratificazione e livellano verso l’alto il brano che perde così il contatto visivo con la terra. La band dev’essere ancora laggiù da qualche parte, la senti suonare, così come giureresti di aver sentito Damon borbottare in falsetto ancora qualcosa, ma la verità è che la chitarra di Graham sta avendo una vera e propria esperienza extracorporea e, liberatasi di jack e ampli, è divenuta scia luminosa, segnale alieno inviato nello spazio profondo (“Space is the place” ripeteva più volte Damon in “Bugman”, secondo brano del disco) e, miracolo!, ci porta tutti via con sé.
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