Non so voi, but… I’m so bored of the UK. O meglio sono enormemente annoiato da tutte le band che l’Inghilterra ci propina da anni. Il giochetto della Next Big Thing ovvero il tentativo da parte della stampa britannica di lanciare il fenomeno, una settimana si e una no, ha davvero stancato, soprattutto perché negli ultimi tempi a essere stati posti sotto il riflettore sono state band effimere e retrive, incapaci di rinverdire i fasti albionici. Chi ama il rock deve tantissimo all’Inghilterra: per quanto mi riguarda ad esempio sono stati inglobati nella mia stessa impalcatura esistenziale Beatles e Kinks, Bowie e Joy Division, Smiths e Clash, Radiohead e Blur, senza dire di alcune passioni che sfociano quasi nell’ossessione personale tipo Mark E. Smith o Robert Wyatt. Eppure da qualche tempo non trovo nessuna band inglese capace di sorprendermi e di farmi sentire come se quella tradizione si fosse appena allungata di una unità. Mi riferisco alla materia pop e rock, laddove invece in ambito di musica elettronica il cosiddetto continuum hardcore inglese ha prodotto diverse scene, etichette e artisti fantastici (cito solo l’episodio a mio avviso più rilevante ovvero rispettivamente: dubstep, Hyperdub, Burial). Tornando alla materia rock, ogni tanto sembra emergere qualcosa di interessante, ma spesso a un esordio clamoroso non fa seguito la crescita sperata (Bloc Party, Guillemots) o le promesse non vengono quasi mai del tutto mantenute (Arctic Monkeys, Libertines). Insomma tanti calessi che sembravano amori, pochissime band eccellenti, ma di nicchia (These New Puritans, Wild Beasts, Clinic) e un paio di giovani solisti che devono ancora dimostrare molto (King Krule, East India Youth). Non tutto ristagna però e, negli ultimi anni, a rialzare il vessillo con la cara vecchia Union Jack ci hanno pensato i suoi figli più degeneri, le sue bestie da quartiere cresciute a freccette, pinte di scura e fish & chips. E così, prima il fenomeno degli Sleaford Mods che ha individuato lo spirito di questa (speriamo) rinascita, utilizzando una formula minimale e cazzona, mutuata dal proletarismo cinico e critico dei Fall, poi è stata la volta dell’uno/due messo a segno dai Fat White Family capaci di consegnare agli annali uno scorrettissimo e provocatorio compendio di garage-punk psichedelico, fino al gruppo di cui questo pezzo dovrebbe parlare: gli Idles.
Formazione di Bristol che possiede tutto quello che bisogna avere per poterne essere conquistati o offesi, trattandosi di band formata con tutta evidenza da un pugno di matti. Il bassista è pelato, grasso e con la barbona, alla batteria siede il solito tizio che nessuno ricorda fino a quando non ti spacca in testa un boccale di birra, uno dei due chitarristi è un tipo dai capelli lunghi e sporchi con un passato (e un presente?) da tossicodipendente, l’altro invece è un beone con i baffi a manubrio che ama suonare dal vivo in mutande e scarpe da ginnastica e no, non ha il fisico per poterselo permettere. E poi c’è lui Joe Talbot, il frontman suo malgrado di questo combo di spostati. Fisico da scaricatore di porto ipertatuato, denti disastrosi e sguardo allucinato da working class hero. Non un tipetto tranquillo a ben vedere: abbandonato dal padre, viene su con la madre che, quando lui compie sedici anni, si fa venire un colpo (nel senso dell’ictus) e lo costringe di malavoglia a provvedere a lei (e nonostante vari problemi di alcool e droga, il ragazzo non abbandona la madre). Mentre la band sta lavorando al disco d’esordio “Brutalism” che uscirà nel 2017, la madre muore e Joe si ritrova pieno di rabbia verso il sistema sanitario britannico, ma anche con una bimba nella pancia della compagna che però viene alla luce morta proprio mentre la band sta lavorando al secondo disco “Joy as an act of resistance” di cui vi sto scrivendo. Insomma, una serie di eventi che non possono che riverberarsi nella logorrea anfetaminica di Joe che trova nel rumore della band l’escapismo perfetto per sfuggire da un privato di merda che fa – manco a dirlo – pendant con una situazione politica sempre più oscura e angosciosa. La band però rilancia, alza la posta e se ne viene fuori con un titolo liberatorio “Gioia come atto di resistenza”! Resistenza alla vita di merda che ti bastona senza pietà come figlio, come padre e come persona umana spogliata di ogni diritto politico, dato in pasto ai fascisti che non stavano dormendo, ma erano solo in attesa del momento buono per alzare la testa.
Rispetto all’esordio, il sound della band – sospeso tra Birthday Party, McLusky, Fall e la prima band punk che vi viene in mente – guadagna in immediatezza. Se in “Brutalism” il gruppo si mostrava già roccioso, ora ad essere ancora più dirompente è la forza innodica dei brani: vera e propria sloganistica punk da urlare in faccia al mondo intero per rivendicare che, nonostante tutto, si è ancora vivi. Si parte con i tamburi di “Colossus” che gioca ad alzare in maniera lenta, ma inesorabile l’asticella della tensione fino al ritornello singalong perfetto per il palco e il pogo, così come perfetto in tal senso è il riffettone punk funk di “Never fight a man with a perm” o il coro da pub di “I’m scum” con Joe che sale sul bancone e, mentre attorno c’è chi gioca a freccette e ti stacca la testa se solo lo fai sbagliare, urla “For a long long while I’m know as dirty rotten filthy scum!”, brano che fa il paio con il ritornello di “Danny Nedelko”, vero inno proletario contro l’oscurantismo! Pro-immigrati! Pro-fratellanza! Unity! (“My blood brother is an immigrant /A beautiful immigrant/ He’s made of bones, he’s made of blood/ He’s made of flesh, he’s made of love/ He’s made of you, he’s made of me/ Unity!/ Fear leads to panic, panic leads to pain/Pain leads to anger, anger leads to hate”). “Love song” è la canzone d’amore che nessuna donna vorrebbe sentirsi dedicare a meno che non si sia quel tipo di ragazza capace di apprezzare la poesia stracciona di chi trova romantico urlarti in faccia “I’m fucking love you/ I really love you/ Look at the card I bought it says/ I really love you”. Poi si arriva a “June” e tutto si fa dolente e non potrebbe essere altrimenti, considerato che si parla di un padre che ha appena perso la propria bambina (e sappiamo chi è quel padre). Il brano ha una intensità difficile da sostenere, tanto che saggiamente la band piazza subito dopo “Samaritans” che gioca tra pieni (chitarra) e vuoti (basso) e spara l’ennesimo ritornello da gridare per stare bene (“This is why you’re never see your father cry”). “Television” ci riporta al fracasso punk (I go outside and i feel free cause I smash /Mirrors and fuck TV) e “Great” torna a giocarsi la carta politica con l’ennesima bordata, forte di un ritornello che scandisce lettera per lettera il titolo del brano e Joe che pare un Nick Cave nato nei Docks (“Blighty wants his country back/ Fifty-inch screen in his cul-de-sac/ Wombic charm of the Union Jack/As he cries at the price of a bacon bap/ Islam didn’t eat your hamster/ Change isn’t a crime/So won’t you take my hand sir And sing with me in time / G R E A T”). Si finisce con l’assolo acido e i rumori da stadio di “Gram Rock”, il basso distorto, le chitarre che stilettano acuminate e le urla della band manco fossero i Bad Seeds in gita premio a Bristol di “Cry to me” e, infine, “Rottweiler” dove il senso di accerchiamento paranoico del cantante viene risolto da un break di chitarre imbizzarrite, batteria in libera battuta, noiserismi vari fino all’apocalisse finale con urla “Fucking! Fucking!”, vociare indistinto, Baraonda&Baruffa, rumore intermittente di chitarra via via sempre più lontano e poi il silenzio.
Lo dico? Lo dico.
Disco rock dell’anno. (Voto: 9.00).
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