Fin dall’inizio, il rock è sempre stata una faccenda di padre e di figli. Di padri a cui ribellarsi, come ad esempio George Stephen Morrison, ammiraglio della Marina degli Stati Uniti che diede alla luce quel Jim Morrison che in “The End” diceva senza mezzi termini di voler uccidere il padre e scoparsi la madre per tutta la notte. Oppure di padri di cui dover supplire l’assenza, come toccò fare a John Lennon che si divise tra l’instabilità della madre e la britannica austerità della zia. Oppure ancora di padri da cui doversi difendere, come fece per tutta la vita Marvin Gaye fino a quando Marvin Gaye Senior non decise di sparargli due colpi, fatali, in pieno petto. Certo ci sono anche i modelli tutto sommato positivi come capitò a Paul Mc Cartney e a Elvis Costello, i cui padri – oscuri musicisti in una Inghilterra non ancora swingante – mostrarono loro le luci e le ombre delle ribalte che avrebbero poi conquistato. Si potrebbe continuare a lungo nell’elenco: padri da cui per tutta la vita cercherai di emanciparti (Brian Wilson), padri putativi da omaggiare nel letto di morte (Bob Dylan e Woody Guthrie) o ancora padri padroni che ti spremeranno fino alla morte (Elvis Presley e il Colonnello Parker). A volte l’assenza del padre è servita a unire i membri di una band, come è successo a Dave Gahan e Martin Gore dei Depeche Mode, entrambi cresciuti da padri diversi da quelli naturali ed entrambi venuti a conoscenza di tale circostanza solo in età adulta.

Ma in realtà, fin dall’inizio, il rock è stata una faccenda di padri e di figli soprattutto per i suoi ascoltatori. Se oggi il rock n’roll ha finito per essere la musica che ascoltano i padri, occorre ricordare che in origine era invece  la musica dei giovani, dei figli che si ribellavano innanzitutto ai propri genitori. Gli anni sessanti furono il punto di caduta di un fenomeno sociale che vide nascere i “giovani” come categoria a sé stante. E accanto al battesimo sociale, ben presto vi fu anche quello commerciale: nell’occidente capitalista, non passò molto tempo, prima che i “giovani” divenissero soprattutto una categoria merceologica. Figli che reclamavano vestiti, valori e riti differenti da quelli in uso nelle generazioni precedenti. E la musica? Chiaramente ne serviva una nuova ed eccitante che rendesse bene il senso di frattura generazionale. Il rock n’ roll seppe farsi trovare al posto giusto, nel momento giusto e finì per essere inalberato come un puntello sonoro capace di marcare la distanza dai propri padri. Chiusi nella propria cameretta, sbracati nei locali o storditi a un concerto, fu con il rock n’ roll e con il suo frastuono che i ragazzi poterono metaforicamente urlare una diversità che i genitori a quel punto avrebbero potuto soltanto subire.

Infine ci sono le singole storie.

Ve ne raccontiamo tre.

Sono storie di paternità perdute, ma infine in qualche modo ritrovate.

La catarsi rock di Eddie Vedder.

Chi già negli anni novanta seguiva la scena musicale, ricorderà senz’altro i Pearl Jam come uno dei gruppi più viscerali del tempo. Una band dal carattere identitario, capace di coinvolgere i fans nelle proprie prese di posizioni. Anche se da subito messi sotto contratto da una major, la band si caratterizzò per un’attitudine indipendente e conflittuale nei confronti della propria casa discografica, rivendicando ogni scelta artistica e lottando contro quello sfruttamento dell’immagine e dell’arte che da lì a poco avrebbe contribuito alla fine di Kurt Cobain. Tale visceralità proveniva in gran parte dal carattere forte e volitivo del leader e cantante Eddie Vedder, vera icona di quegli anni al pari del già citato Cobain. Fu il giovane Eddie a connotare una band composta da veterani dell’underground statunitense: Jeff Ament e Stone Gossard, rispettivamente basso e chitarra della formazione, stavano in giro già da un po’ e avevano più volte sfiorato il successo con le loro precedenti band. Ma se il sound dei Green River, band seminale del grunge, sembrava più farina del sacco di Mark Arm e Steve Turner dei futuri Mudhoney e i Mother Love Bone dovevano il loro suono tra glam e street rock alla personalità del cantante Andrew Wood, fu il sodalizio con Eddie Vedder a spingere i due musicisti verso un sound intenso, costantemente volto alla ricerca della catarsi rock.

Non tutti sanno però che il big bang del gruppo, ovvero il momento della sua nascita è legato a doppio filo alla travagliata storia familiare di Eddie Vedder.

Pearl Jam - Alive (Official Video)

Eddie nasce a Chicago nel 1964. Di cognome fa Mueller e passa la sua adolescenza in California, a San Diego precisamente. Si divide tra il lavoro alla pompa di benzina, la passione per il surf, ma soprattutto la musica. La svolta avviene quando Jack Irons, all’epoca batterista dei Red Hot Chili Peppers, ma che in futuro militerà anche negli stessi Pearl Jam, segnala il giovane Eddie a Stone Gossard e Jeff Ament, i quali – dopo che la morte per overdose di Andrew Wood aveva posto fine alla carriera dei Mother Love Bone – stanno cercando di mettere in piedi un’altra band.

Che si trattava della volta buona, probabilmente i due ragazzi lo capirono non appena poterono ascoltare la voce che quel cantante di San Diego aveva inciso sui tre brani strumentali inviati via cassetta. In particolare, tra questi tre, ce n’è uno che nelle mani di Eddie si trasforma in un vero e proprio inno rock da cantare a squarciagola. Qualcosa che sa di riscatto e liberazione. La canzone di cui stiamo parlando è “Alive” che troverà poi posto nell’esordio dei Pearl Jam “Ten” del 1991. La canzone parla della scoperta del giovane Eddie dell’identità del suo vero padre. Basterebbe leggere il testo della canzone per sapere come è andata, ma qui ve la riassumiamo. Eddie cresce con un padre che detesta. Poi quando i genitori si separano, decide di restare a San Diego e non seguire la madre che aveva deciso di trasferirsi. Prima di partire, la madre regala al figlio una chitarra e sente la necessità di rivelargli la verità: il suo vero padre, in realtà,  è quel vecchio amico di famiglia che ogni tanto lo andava a trovare e che guarda caso era stato anche un musicista.

Quando la madre esce dalla stanza, Eddie si ritrova solo con una storia dolorosa. Ed una chitarra. Saprà cosa farne.

Dopo pochi giorni decide di adottare il nome della madre (Vedder) e, quando verrà il momento di dover dimostrare quel che sa fare a Gossard e Ament, si ricorderà di questa storia e scriverà uno dei ritornelli più travolgenti di sempre: quel “but I’m still alive” che, guarita la ferita del giovane Eddie, è divenuto inno universale buono per trovare la forza di rialzarsi ogni volta dopo una batosta.

Da padre a fratelli di sogno: Tim e Jeff Buckley.

Qualcuno ha detto che Tim Buckley, cantautore californiano attivo a cavallo tra i sessanta e i settanta, ha fatto per la voce quello che Hendrix ha fatto per la chitarra e Coltrane per il sassofono. Ovvero forzare i limiti del proprio strumento, in un viaggio avventuroso ai confini dell’inaudito. Certo è che più nessuno è stato capace di inerpicarsi con la voce lungo i percorsi tracciati da Tim Buckley. Un viaggiatore stellare come si autodefiniva tramite il titolo del suo disco del 1970 “Starsailor”.

Raggiungere certe vette artistiche può avere un prezzo. Tra quelli che Tim decise di pagare, ci fu l’abbandono della moglie e del figlio appena nato. Nel 1966, quando nasce Jeff, Tim ha già lasciato la madre per andare a New York, nella speranza di affermarsi nella fiorente scena folk della città. Nel 1967, incide “Goodbye and Hello” primo di una serie di cinque capolavori pubblicati in soli tre anni e che contiene al suo interno un brano particolare: “I never asked to be your mountain”, il cui testo faceva esplicito riferimento alla sua incapacità di far fronte ai doveri di marito e padre.

Tim Buckley - Once I Was

Jeff nel frattempo cresce, dapprima con la nonna e la zia, mentre la madre è lontana, impegnata a lavorare per mantenerlo. Poi, quando la stessa si sposa con un tale Sig. Moorhead, Jeff ne prende il cognome e diventa Scotty Moorhead.

Incontra il padre alcune volte, ma senza sapere chi è davvero. E non lo saprà fino a quando, a nove anni, nel 1975, i due non si incontrano questa volta sapendo entrambi la parentela che li lega. Quello purtroppo è anche l’anno in cui Tim, all’età di soli 28 anni, muore per overdose, in un momento in cui la sua carriera si trova in forte declino.

Quindi, nello stesso anno in cui Jeff apprende dell’identità del padre, questo gli viene portato via dalla morte che rende così impossibile qualunque tentativo di riavvicinamento. Probabilmente però è in quello stesso anno che Jeff scopre che, oltre a quel cognome – Buckley – che proprio da quel momento comincerà a utilizzare al posto di Moorhead, a unire padre e figlio c’è qualcosa in più: la voce. Si accorge di avere in comune col padre la stessa vocalità celestiale. E se è vero che quella di Jeff risulta più irruente e selvaggia, appare innegabile il comune marchio Buckley.

Possiamo solo supporre che cosa provò quel ragazzo nel sentire risuonare dentro di sè la voce del padre. Scoprirsi capace di tanta bellezza poteva essere oltre che dono, maledizione? Quel padre, che abbandonandolo fisicamente aveva anteposto la propria libertà individuale alla responsabilità paterna, ora lo perseguitava come un fantasma?

E’ una domanda che rimane senza risposta, ma quello che sappiamo è che il giovane Jeff decide comunque di puntare su quel talento e di diventare un musicista. Per farlo si trasferisce nella stessa città in cui il padre era scappato prima della sua nascita. Quella New York dove Jeff avvia una gavetta musicale che culmina nel 1991, quando viene invitato al concerto tributo organizzato in onore del padre “Greetings from Tim Buckley”. In tale occasione si ritrova a doversi confrontare pubblicamente con l’eredità paterna, in un incontro/scontro che sarebbe risultato decisivo per il suo futuro. Come disse alcuni anni dopo, nell’accettare quell’invito, Jeff decise di porgere l’ultimo saluto al padre, rimediando al fatto di non avergli mai potuto parlare davvero. E così in quella serata, di cui ci rimangono solo registrazioni audio scricchiolanti, Jeff manda due messaggi al padre. Il primo è un messaggio di sfida e di autoaffermazione: Jeff sceglie di rivelarsi al mondo, iniziando l’esibizione proprio con quella “I never asked to be your mountain” in cui si racconta la paternità a lui negata. Il secondo è un messaggio di riappacificazione: quando nel silenzio quasi sacrale dell’auditorium risuona la voce di Jeff intonare quella che a suo dire era stata la prima canzone che aveva sentito del padre “Once I was”, “Una volta ero…” la sensazione fu che quell’ incontro tra padre e figlio, mai avvenuto in vita, si fosse finalmente concretizzato. Anche il caso fece la sua parte: nel finale dell’esibizione, la rottura di una corda costrinse Jeff a terminare il brano a cappella.

Quelle due voci così simili sembrarono risuonare all’unisono.

Padre e figlio si ritrovarono uniti in quei pochi istanti di paradossale intimità pubblica come mai erano stati prima.

Jeff Buckley - Once I Was *Remastered*

Non sappiamo se si tratta di facile suggestione, ma l’impressione è che quella serata così intensa abbia rappresentato uno spartiacque nell’evoluzione artistica di Jeff che si rivelò purtroppo essere ancora più bruciante e breve di quella del padre. Nel 1994, “Grace”, disco d’esordio di Jeff Buckley mette d’accordo tutti circa il suo assoluto valore.

Ma un’ultima cosa doveva ancora accomunare i due Buckley: la morte prematura.

Nel 1997 Jeff muore annegato nel Wolf River, affluente del Mississippi. Qualcuno dirà che aveva bevuto troppo. Aveva 31 anni.

Quattro in più del padre.

Scott Fagan try to sing Stephen Merritt.

Nel 2013, non furono molti ad accorgersi del progetto di crowdfunding “Scott Fagan Sings Stephin Merritt” , tanto che la raccolta di fondi non andò a buon fine e raccolse meno della metà del denaro necessario per pubblicare il disco per cui era stata avviata la raccolta. Ma chi erano rispettivamente Scott Fagan e Stephin Merritt? E perché il primo voleva cantare le canzoni del secondo? Che la raccolta non abbia trovato le sufficienti sovvenzioni non sorprende poi molto: se magari i più informati sapevano chi fosse Stephin Merritt, ovvero l’uomo che si cela dietro alla sigla Magnetic Fields, sicuramente ben pochi sapevano chi diavolo fosse Scott Fagan. Probabilmente fino a pochi anni prima, nemmeno Fagan sapeva il motivo per cui il mondo avrebbe potuto interessarsi a lui al punto da finanziargli un disco di cover. Dopotutto, Fagan per i pochi che avevano avuto la fortuna di imbattersi nell’oscuro “South Atlantic Blues” disco da lui inciso nel 1968 non era altro che uno dei tanti cantanti degli anni sessanta i cui tesori erano rimasti sepolti da un’epoca troppo piena di talenti. Sorte che non era toccata, invece, a Stephin Merritt che con i suoi Magnetic Fields era riuscito a conquistare la ribalta della scena indie-rock, dapprima con i dischi rivelazione “The charm of the highway strip” e “Get lost” per poi esplodere con il folle eppure riuscito progetto di scrivere 69 canzoni dedicate al tema dell’amore. “69 Love songs”, triplo cd pubblicato nel 1999, concluse il decennio, anticipando l’enciclopedismo musicale del pop degli anni 2000 e strappando applausi da tutti gli addetti ai lavori, oltre che dagli appassionati di un pop artigianale che, saldo nella tradizione americana, viene maltrattato da synth e chincaglieria elettronica a basso costo.

La vita a volte impone strani copioni o, a volte come nel nostro caso, si diverte a invertire i ruoli.

Questi due musicisti in momenti diversi hanno scoperto di essere padre e figlio.

In particolare, Stephen è il figlio che per anni conosce la vera indentità del padre, ovvero quell’oscuro cantautore scomparso dalle scene troppo presto, mentre Fagan non è affatto a conoscenza che quella giovane promessa del songwriting americano sia in realtà il proprio figlio avuto da una breve relazione giovanile.

Stephen, spinto dalla paura della possibile delusione, decide di non cercare mai il padre, il quale invece nel momento in cui scopre la propria paternità comincia a cercare un involontario e misterioso ascendente artistico nei confronti del figlio. Dopo aver ascoltato “69 love songs” disse: “Quando ho sentito le canzoni per la prima volta, sono rimasto a bocca aperta. Era come se avessi sentito me stesso cantare qualcosa che avevo iniziato a scrivere e che in qualche modo inspiegabile, poi, avevo dimenticato”. Parole forse dettate da suggestioni a posteriori, ma che in ogni caso risultano affascinanti. Fatto è che Fagan da quel momento comincia ad interessarsi alla musica del figlio al punto tale da cercare di pubblicare il disco di cover di cui si parlava in apertura. Come detto il progetto non vedrà mai la luce, ma Fagan riuscirà proprio nello stesso anno a incontrare finalmente il figlio. Nel 2013, un emozionato e ancora impaurito Stephin infatti accetta per la prima volta di vedere il padre, portandosi dietro a mo’ di protezione la madre come accompagnatrice e il migliore amico come guardia del corpo. Il rivelato rapporto tra i due riaccende i riflettori anche sull’ormai dimenticato disco di Fagan “South Atlantic Blues” che, nel 2015, viene finalmente ristampato corredato da un corposo libretto in cui il figlio intervista il padre.

Ma cosa accomuna effettivamente i due musicisti? Cosa unisce un crooner soul dei tardi anni ‘60, autore di un pop orchestrale tra il giovane Bowie e l’Harry Nillson più elegante, con l’uomo eclettico capace di sabotare il pop americano con progetti impossibili, dischi a tema e canzoni dalle melodie memorabili?

A prima vista poco, a parte certi toni baritoni della voce… ma probabilmente, la risposta andrebbe ricercata, non tanto nel disco ritrovato “South Atlantic Blues” o in quelli celebrati di Merritt, quanto nel disco perduto, ovvero quel “Scott Fagan sings Stephin Merritt” che probabilmente non vedrà mai la luce. Forse quel disco avrebbe potuto finalmente mostrare le affinità che inevitabilmente uniscono un padre ed un figlio entrambi nati con il vizio della canzone.