Si dice che per avere una buona storia, basti trovare il finale giusto.
Non importa il suo sviluppo: se la storia avrà un buon finale, alla gente resterà un bel sapore in bocca e il ricordo sarà positivo.
Se poi oltre al finale, sei in grado di aggiungere anche una storia avvincente, allora puoi dire di avere in mano una vicenda indimenticabile.
Così come indimenticabili sono state le storie di David Bowie, Leonard Cohen e Vic Chesnutt.
Storie che hanno avuto in comune delle uscite di scena memorabili che, seppure in maniera differente fra loro, hanno dimostrato un assunto: il modo in cui te ne vai, la dice lunga su quello che hai fatto in vita e su ciò che sei stato.
Seguendo questo ragionamento, diventa assolutamente coerente la scelta di David Bowie di abbandonare le scene, dapprima pubblicando uno dei suoi migliori dischi, per poi fargli rubare la scena dalla propria morte, dimostrando così per l’ultima volta come nella sua carriera tra musica e personaggio, il secondo era destinato fino alla fine a prevalere.
Allo stesso modo e con uguale coerenza, Cohen ha concluso con “You want it darker” un percorso che lo ha portato dai vizi consumati tra le luci fioche delle camere d’albergo del Chelsea Hotel alla vita monastica degli anni novanta, fino ad arrivare alla pace interiore e alla serena accettazione della propria fine terrena.
Vic Chesnutt con “At the cut” ha urlato fino all’ultimo la sua disperazione con toni ora sommessi, ora amaramente nostalgici, ora semplicemente fragili, prima di porre fine alla propria esistenza, suicidandosi.
Tre modi diversi di affrontare la morte: l’urgenza di riaffermarsi per l’ultima volta, la voglia di congedarsi dal mondo, condividendo il proprio tesoro di pace e serenità, le fragilità di un uomo che lotta per non annegare.
La stella nera
Provate a immaginare un uomo che sembrava destinato a non invecchiare mai e a vivere in eterno, forte di un campionario di maschere che sembrava infinito.
Molti lo considerano il Re Mida del pop.
Poi d’un tratto il tocco magico sembra sparito.
Guardandosi allo specchio, nota come il suo volto, bello di una bellezza aliena, sta cominciando a invecchiare.
E’ uscito pure un film che lo ritrae come un traditore di se stesso. E’ tipo il cattivo della storia, lui.
Poi arriva anche la malattia. Una malattia che non gli lascia molto tempo. Questo, lo sa.
Non può che riflettere su quanto gli rimane da vivere e su ciò che gli resta da fare: è un artista e ha l’ultima possibilità di lasciare una testimonianza della sua opera.
Questa testimonianza si chiamerà “Blackstar”.
Ora, immaginiamo come sia stato arduo per un artista poliedrico come Bowie scegliere quale strada percorrere al momento della concezione di quello che sapeva sarebbe stato il suo ultimo disco.
Cosa fare? Riportare Ziggy da Marte, mettendo in scena una morte che questa volta non sarebbe stata solo finzione? Evocare il fantasma del maggiore Tom per poi raggiungerlo negli spazi siderali? Chiamare Brian Eno per trasformare la trilogia berlinese in una definitiva tetralogia, pubblicando magari la seconda parte di “Outside” oppure…?
Le opzioni in campo erano molte e tutte percorribili: se il fisico stava cedendo, probabilmente David si sentiva vivo artisticamente. Anzi, di più: si trovava nel pieno di una ennesima resurrezione. Dopo una serie di dischi dove l’ispirazione era stata sostituita da uno stanco mestiere, aveva fatto seguito un lungo silenzio che, tra le altre cose, aveva alimentato non poche voci sul suo stato di salute; poi a sorpresa, nel 2013, “The Next Day” aveva riconsegnato al mondo un artista di nuovo vitale, che sembrava aver ritrovato le proprie formule segrete per creare una musica intensa, schietta e semplicemente rock che richiamava direttamente il sound degli anni settanta.
In quel disco energico, c’era però un episodio particolare.
Il singolo scelto per anticipare il disco risuonò come una bomba. Intenso, lirico, ispirato come da anni non capitava al Duca. Sbucò fuori dal nulla, senza che niente lo preannunciasse: né rumours, né dichiarazioni di un lavoro in uscita. Tutto ciò ne amplificò la potenza.
La canzone si intitolava “Where are we now” e si faceva notare anche all’interno del disco, costituendo un’oasi di pace e malinconia in un lavoro per il resto energico. Sembrava quasi un episodio a se stante. Tuttavia fu scelto per presentare il disco dell’ennesima resurrezione. Un brano in cui Bowie parlava pubblicamente di fragilità, affidandosi a una melodia semplice e a un arrangiamento evocativo. Per noi che scriviamo, si tratta della canzone più bella del disco, nonché di una delle più affascinanti di Bowie ed è forse proprio da lì, da quel bilancio esistenziale che non può non fare i conti con il passato che parte il Bowie finale, quello di “Blackstar”. Forse si parte proprio dai versi finali di “Where are we now”, laddove si dice “fino a quando ci sarà il fuoco, fino a quando ci sarò io fino a quando ci sarai tu”.
Per mettere in scena il suo testamento musicale, Bowie si mette in gioco per l’ultima volta e decide di sparigliare le carte: invece di richiamare i soliti collaboratori, si affida a un gruppo di jazzisti del giro newyorkese con i quali non ha mai collaborato. In occasione della pubblicazione di “American dream”, James Murphy (presente peraltro alle session di registrazioni di Blackstar e accreditato alle percussioni in due brani) dichiarò che a contribuire alla decisione di rimettere insieme gli LCD Soundsystem era stata una frase pronunciata da Bowie che sosteneva che, se l’idea di rimettere in piedi il gruppo lo faceva sentire a disagio, allora doveva farlo, perché è quando siamo a disagio che lavoriamo più duramente. Allo stesso modo, Bowie decide di uscire dalla propria comfort zone. Ma – attenzione – non si affida a questi musicisti sconosciuti, piuttosto se ne serve, plasmandone il suono, scegliendo ogni singola nota sotto la fondamentale direzione del fedelissimo amico e produttore Tony Visconti. Il risultato che ottiene è un disco che non suona come “Bowie-più-un-gruppo-di-jazzisti-che-suonano-rock”, ma come qualcosa capace di mostrare l’essenza stessa della sua musica. Un disco iper-bowiano che sorprende per la capacità di dosare i propri elementi con straordinaria misura. Ascoltate come il sassofono che fraseggia be-bop in “Lazarus” non suoni una nota in più, né una in meno, oppure come la chitarra che chiude “I can’t give everything away” non suoni una sola nota più del dovuto.
Un disco conciso, pieno di rimandi interni alla discografia del suo autore, capace di creare traiettorie interne al mondo musicale dell’artista, senza diventare sterile citazione o pallida copia di soluzioni già sperimentate.
La scelta dei nuovi musicisti si rivela vincente e così ci si può permettere il rock strutturato alla Station to station di Blackstar o le ritmiche che riportano alla mente I’m deranged di Sue o ancora il cantato isterico di Girl loves che negli anni ’70 aveva anticipato tanta new wave, fino ad arrivare alla chitarra frippiana della già citata “I can’t give everything away” che chiude il disco con la sensazione che tutto sia durato troppo poco: solo sette brani di cui due peraltro già editi, seppure con arrangiamenti differenti (“Sue” e “‘Tis a Pity She Was a Whore”). Una concisione non certo dovuta ad aridità compositiva: lo dimostrò qualche mese dopo la pubblicazione dell’EP “The Plan” che conteneva tre brani provenienti da quelle session e tutti meritevoli di trovare posto nel disco (in particolare l’esclusione di “Killing a little time” grida vendetta).
Fu, dunque, una scelta di parsimonia ed equilibrio. In un vecchio documentario, David Bowie, riferendosi alla propria attività di pittore, sosteneva l’importanza del senso della misura e della capacità dell’artista di comprendere quando fermarsi, perché a volte anche solo un tocco di pennello in più può rovinare l’equilibrio dell’intero lavoro…
Ecco, con Blackstar, il suo autore ci dimostrava come il senso della misura e la capacità di comprendere quando e come fermarsi fossero fondamentali non solo per confezionare un disco magnifico, ma anche per chiudere una delle carriere più formidabili della storia della musica.
I’m ready my lord
“Dunque, Marianne, siamo giunti al tempo in cui siamo talmente vecchi che i nostri corpi cadono a pezzi e penso che molto presto ti seguirò. Sappi che ti sono alle spalle, così vicino che se tendi una mano penso che riuscirai a prendere la mia. E tu sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, ma non ho bisogno di dire altro in proposito perché di questo sai già tutto. Ora però voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore eterno. Ci vediamo lungo la strada…»
Con queste parole Leonard Cohen salutava la sua musa più famosa, appena prima che la stessa morisse nel luglio del 2016. La donna che gli aveva ispirato “So long Marianne” e “Bird on the wire” lo avrebbe preceduto solo di qualche mese: nel novembre dello stesso anno anche il cantautore canadese l’avrebbe seguita. Leggendo la lettera, resa pubblica dopo la morte della donna, era chiaro a tutti come il vecchio Leonard si stesse preparando alla sua fine terrena e che fosse pronto a coprire quell’ultima distanza che lo separava da Marianne e da tutti gli amici e le amanti perdute nel corso degli anni. C’era ancora una cosa da fare ovvero salutare la sua più cara e capricciosa fidanzata: la canzone.
Indossato per l’ultima volta il vestito migliore, il vecchio signore con il cappello e la voce profonda dava alle stampe il suo ultimo lavoro.
E non potrebbe esserci maggiore contrasto tra l’uscita di scena bowiana e quella di Cohen: se il primo sceglie con un ultimo vitalistico gesto di riaffermare la propria grandezza, il secondo presenta un lavoro sommesso, pieno di umanità, ma soprattutto sereno.
“You want it darker” ci presenta un Leonard Cohen che, prossimo all’imminente fine, si stringe attorno alle proprie amicizie e affetti. Mentre Bowie cerca nuovi stimoli artistici nel confronto con un nuovo gruppo di collaboratori, Cohen sceglie un ambiente familiare e si circonda dei fidati collaboratori che lo hanno seguito nell’ultima parte di carriera (Patrick Leonard e Sharon Robinson) e soprattutto affida la produzione alle amorevoli mani del figlio Adam.
Anche il confronto tra gli incipit dei due album appare significativo: se Bowie celebra metaforicamente il suo funerale con il rituale oscuro di Blackstar, Cohen ci consegna anticipatamente il suo elogio funebre e lo fa con il brano che dà il titolo all’album. E “You want it darker” è qualcosa che toglie il fiato: un monumentale gospel, eretto su un bordone di organo appena increspato dai battiti metronomici di basso e batteria, con i cori a donare sacralità alla cerimonia officiata da quella voce che conclude ogni strofa con un inequivocabile “I’m ready, my lord”. Cohen non usa metafore o giri di parole e non lascia nulla di non detto. La voce profonda che afferma senza mezzi termini “sono pronto, mio signore” è quella di un uomo pacificato, ma che ha ben presenti le contraddizioni e i dubbi dell’uomo nel rapporto con il mistero. La serenità nell’accettazione della propria fine è tale perché ad essa corrisponde l’accettazione della propria inadeguatezza di fronti ai misteri della vita e della morte.
L’umanità e i suoi limiti da un lato, la mortalità dall’altro sembrano essere gli estremi intorno ai quali ruotano le tematiche dei testi, mentre musicalmente il disco si affida ai soliti, ma collaudatissimi trucchetti coheniani: una voce femminile per aggiungere dinamica, chitarre twang a donare profondità e spazio, cori da murder ballad per scurire la stanza, violini e violoncelli ad assicurare la giusta dose di struggimento. E su tutto quella voce, nera come la notte eppure rassicurante. Enfatizzata dallo sfondo su cui si staglia, sui vuoti e i pieni dell’abito sartoriale che il figlio del cantautore ha confezionato su misura del padre.
L’uomo che lascia il tavolo e si dichiara fuori dal gioco in “Leaving the table” non ha più bisogno di scuse o di perdono, né ha più la necessità di incolpare nessuno.
Ha percorso una lunga strada che lo ha portato dalla natia Montreal fino all’isola greca di Hydra per poi giungere a quella New York dove il Poeta e lo Scrittore, che hanno già pubblicato romanzi e raccolte di poesie, cedono definitivamente il passo al Musicista, consegnando il canadese a una vita nuova, ma memore delle precedenti.
Come rinato per la seconda volta, Cohen infila una serie di dischi che oscillano tra sesso e religione, peccato e redenzione e diviene uno dei classici irrinunciabili della grande stagione dei cantautori americani a cavallo tra i sessanta e i settanta (di fatto è l’unico artista che può stare sullo stesso piano di Sua Bobbyness Dylan). Esaurita questa stagione, trova giusto certificare la sua prima morte tramite l’incerta produzione affidata a Phil Spector di “Death of a ladies man“, per poi rinascere negli anni ’80 con quel “I’m your man” dove sfoggia una nuova voce, bassa e penetrante, profonda e tagliente. Dal 1993 al 1999, sparisce nuovamente dalle scene e si rifugia in un monastero zen ubicato non lontano da Los Angeles. Rinasce per l’ultima volta con lavori via via più ispirati (“Old ideas” su tutti).
Alla luce del finale affidato a “You want it darker”, è chiaro come tutta la strada percorsa non ha fatto di lui semplicemente il grande Nome della canzone d’autore che, negli ultimi anni, ha vissuto una vecchiaia dorata tra palchi via via sempre più esclusivi e la stima incondizionata di critica e colleghi. No, ciò che è maturato dentro questo contraddittorio ebreo canadese, è maturato lontano dal clamore, dalle lusinghe e dalla leggenda che già da vivo lo circondava. Ed è stata la capacità di sbrogliare la matassa esistenziale che avvolge tutti, liberandosi di passioni e pulsioni senza condannarle mai, cantando di tutto questo con in bocca il sorriso beffardo di chi rivela in musica un messaggio allo stesso tempo così chiaro, ma anche così criptico.
Il coraggio del codardo è più grande di quello degli altri.
“I have attempted suicide three or four times [before]. It didn’t take.”
“I don’t want to die, especially just because of I don’t have enough money to go in the hospital.”
Per gli appassionati di musica, Vic Chesnutt è stato dapprima un nome di culto.
Lo si incontrava distrattamente a mo’ di curiosità geografica (stessa città dei R.E.M.), mentre si leggevano biografie altrui (pupillo di Michael Stipe, che ne produceva i primi due dischi). Se poi ci si soffermava ad ascoltarli quei dischi, si capiva come aveva fatto quel giovane ragazzo in carrozzina che aveva perso l’uso delle gambe in un incidente stradale, mentre guidava ubriaco, a fare innamorare di sé il cantante del gruppo rock più importante dell’epoca: era bastato che Stipe entrasse una sera al mitico “40 watt club” di Athens e sentisse quella voce nasale sempre sul punto di spezzarsi (perché non puoi puntare così in alto in intensità, senza correre dei rischi). Bastava ascoltare. Senza farsi distrarre da quella straniante ironia che stemperava la letterarietà dei testi: la poesia di quelle parole affidate a musiche scarne risuonava necessaria e implacabile.
Al plauso di Stipe si aggiungevano negli anni quelli di molti colleghi come Kurt Wagner, Bill Frisell, Elf Power e Van Dyke Parks.
Mancava però il traguardo più importante per chi sfida le proprie paure e paranoie e si denuda metaforicamente in pubblico, coperto solo dalla propria chitarra. Ovvero il successo tra gli ascoltatori. L’affetto dei fan. La stima degli appassionati. Tutte cose che sarebbero arrivate. Ma purtroppo solo un attimo prima che Vic decidesse di farla finita con la propria vita, esagerando con i farmaci.
Ma proprio quando tutti si sperticavano in lodi, riconoscendo finalmente al piccolo uomo la statura del gigante, il resto del mondo continuava a trattare Vic Chesnutt come un emarginato. Un individuo “inassicurabile” perché tetraplegico e che pertanto non aveva diritto a coperture sanitarie per accedere al costosissimo sistema sanitario americano. Che al momento della morte era in debito di 50.000 dollari per le proprie spese mediche e che si augurava di non stare ancora male perché semplicemente non poteva permetterselo.
Sarebbe troppo facile adesso tirare in ballo Baudelaire e la vecchia storia dell’Albatro che vola alto nei cieli della poesia, mentre goffo sulla terra viene scimmiottato dai marinai che lo hanno catturato. Ma sarebbe come caricare di una eccessiva dimensione sociale un tormento che è stato innanzitutto personale e privato. Alcool, depressione, paraplegia. Tutte componenti che hanno accompagnato la breve esistenza (44 anni) del nostro uomo, la cui musica però non aveva nulla di deprimente, potendo piuttosto contare su una forza pazzesca.
La stessa che marchia a fuoco l’ultimo lavoro del musicista americano.
“At the cut”, il vero testamento di Vic Chesnutt (che però farà in tempo, prima della morte, a pubblicare lo scarno “Skitter on take-off”), si apre con parole di una potenza assoluta, accompagnate da una musica che sa essere epica senza suonare mai tronfia:
Il coraggio del codardo è più grande di tutti gli altri
Un gatto spaventato ti graffierà, se lo spingi in un angolo
Ma io, io, io, sono un codardo
Un coraggio nato dalla disperazione e dall’impotenza
I cani sottomessi, se frustati e impauriti, possono diventare veramente pericolosi
Ed io, io sono un codardo.
E deve volerci una forza fuori dal comune per iniziare un disco con queste parole e solo un artista nel pieno della maturità e della consapevolezza poteva essere in grado di gestire la potenza emozionale senza soccombergli, sublimandola piuttosto in un contesto musicale che oscilla tra intimità ed epicità, introspezione e dramma.
La parola che sale forte all’ascolto di “At The Cut” è compiutezza.
Già dal disco precedente “North Star Deserter”, grazie all’opera di mediazione del regista Jem Cohen, Vic Chesnutt aveva avviato una collaborazione con Guy Picciotto degli indimenticabili Fugazi e soprattutto con gli artisti del giro Constellation, etichetta/collettivo canadese responsabile di sigle fondamentali nella storia del cosiddetto post-rock quali Godspeed You! Black Emperor e A Silver Mt. Zion.
Chesnutt è sempre stato un artista complesso, sempre pronto a scrollarsi di dosso le facili etichette di menestrello del dolore che le sue condizioni fisiche potevano suggerire. La collaborazione con il collettivo canadese guidato da Efrim Manuel Menuk sembrava poter fornire il contesto giusto per riuscire ad esprimere tutte le diverse sfaccettature della sua musica. E le attese erano state ripagate da un primo disco, “North Star Deserter”, che metteva in scena la spettacolare collisione di due mondi musicali che però sembravano rimanere separati, seppure in perfetto equilibrio. Laddove invece, nel secondo episodio della collaborazione “At the cut”, la fusione sembra perfettamente sinergica. Rispetto al precedente, “At the cut” potrebbe apparire sbilanciato verso le sonorità e il mondo musicale del musicista di Athens, ma in realtà sarebbe sbagliato pensare che Efrim, Guy e soci si siano messi al servizio del gigante sulla sedia a rotelle, al fine di regalargli il vestito definitivo. Piuttosto, furono tutti gli attori in causa, Vic per primo, a essersi posti al servizio della Musica.
Si parlava di compiutezza e difficilmente troverete qualcosa di più compiuto di “At The Cut”.
Vic da par suo ci mette le sue melodie più belle, le sue parole più intense. E così è qualcosa di assoluto quello che spira nel soffio che canta in punta di spazzole la melodia aerea di “We hovered with short wings” o nella forza maestosa delle reiterazioni di “Philip Guston” cui si contrappongono la dolceamara allegria di “Concord Country Jubilee”, la dolente intimità con cui si racconta l’impotenza umana di “Chain” o ancora la forza melodica di “Chinaberry tree”.
La rilettura con il senno di poi è un esercizio che bisognerebbe sempre evitare, ma non si può non restare insensibili all’irrompere di un verso come “O Morte, non sono pronto” nell’apparente allegria nostalgica di “I Flirted with you all my life” che sembra contrapporsi al “Lord, I’m ready” visto nell’addio di Leonard Cohen.
Sì, perché di Vic non si sospettava affatto la fine imminente. Piuttosto si era contenti del fatto che le cose sembrassero finalmente girargli nel verso giusto. D’altronde, come si faceva a non volere bene a un uomo che affidava la chiusura del proprio disco al tenero ricordo della nonna che in “Granny” porge parole semplici come “You are the light of my light and the beat of my heart“.
Ma forse non era vero affetto il nostro. Quelle pagine di musica e vita così appassionate ci facevano gridare all’ingiustizia per il destino occorso a quel musicista, che però allo stesso tempo ci piaceva vedere soffrire, perché in fondo siamo tutti schiavi del cliché che vuole l’artista sofferente come quello più capace. E dunque il nostro era un amore interessato, perché tutti abbiamo bisogno di un qualcuno che soffra al posto nostro e che torni indietro a raccontarci il dolore.
Ma a volte, l’amore non ci salva e Vic questo nelle sue canzoni l’aveva detto tante volte.
Stupidi noi a non ascoltarlo, persi nelle nostre vite mentre corriamo sulle nostre gambe abili.
Ed in fondo le parole per descrivere la sua uscita di scena Chesnutt le aveva già scritte, con la consueta spietata lucidità, quasi 15 anni prima della sua morte nella canzone “Free Of Hope”:
Libero dalla speranza
Libero dal passato
Grazie Dio di niente
Alla fine sono libero.
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